“Water, water, everywhere,” scriveva Samuel Coleridge.
ROMA non è di certo “La ballata del vecchio marinaio,” ma è un film pieno d’acqua, dall’inizio alla fine. L’acqua che la protagonista Cleo, domestica di una famiglia borghese nella Citta del Messico del 1971, utilizza per lavare pavimenti, piatti, abiti. Che dà da bere ai bambini assetati. Acqua, o meglio “le acque” che le si rompono al termine di una gravidanza, nel momento più tumultuoso della storia del film e del Messico, e le acque del mare delle scene finali, prima di tornare ai panni, ai tetti, ai cieli, agli aerei che passano e vanno chissà dove.
Acqua che scorre e lava via lo sporco, acqua dalla quale ci si deve salvare, ma che allo stesso tempo è vita. Nuovi parti dal mare che sostituiscono le disgrazie, nel metaforone messo in scena da Alfonso Cuarón, che la sua macchina da presa la muove agile e liquida attorno ai suoi tanti personaggi, dentro alle scenografie che ricostruiscono quegli anni in maniera sontuosa, precisissima e perfino sovrabbondante e ossessiva, cercando di arginare almeno il trasporto del sentimento di questo suo personalissimo, castissimo e scolastico Amarcord.
Attinge ai suoi ricordi personali, il regista messicano. Poco importa andare a vedere e soppesare quanta autobiografia ci sia, e quanto romanzata, e quanto idealizzata. Importa di più sottolinearne la scissione, la voglia di fare e di dire da un lato, e quella di trattenere il fiume in piena del ricordo e della passione attraverso lo studio maniacale della messa in scena, tradito dai virtuosismi di macchina e da una fotografia quasi troppo perfetta, troppo patinata, per la storia che viene raccontata, e dall’onnipresenza di suoni, voci, rumori.
Racconta di qualcosa che sta finendo, che muore, che viene danneggiato e che nasce in una forma nuova, ROMA. Racconta della fine e del nuovo inizio di una famiglia, forse di un paese, sicuramente di una giovane donna che si ritrova proiettata nella vita, ci si scontra in pieno ma si salva salvando gli altri, aiutandoli, anche quando forse non se lo meritano. Tra cani vivi e impagliati, vecchie Ford Galaxy e i cinema di una volta, con dentro Tre uomini in fuga e Abbandonati nello spazio, che vorresti continuare a vedere più di quanto Cuarón non conceda.
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