Armida è una giovane impiegata in una ditta di biancheria femminile gestita da Veronica, un'imprenditrice con poco talento e ancor meno scrupoli.
Armida viene dalla Sicilia, ma lavora nel Polesine, fianco a fianco con tutta una serie di altre sarte e operatrici che, nel trionfo dei rispettivi dialetti, danno all'occupazione quotidiana il sapore di una lieta babele che trova proprio nel lavoro il suo ordinamento e la sua ragion d'essere.
Armida ha una figlia, a carico, ma non è sposata. Ha un amante che si bea del suo accento siculo, ma che è meglio tener nascosto allo sguardo pettegolo dei più, e, come da tradizione, una zia monaca, devota al culto della Santa Armida del vicino monastero.
Nell'Italia senza ritegno nella quale viviamo due sono i motivi paralleli che danno avvio al racconto: Veronica ha da tempo deciso di dichiarare bancarotta (malgrado gli ordinativi siano in aumento) per dislocare l'impresa in Serbia ed è in qualche modo addentro anche al progetto della curia di cacciare le monache dal convento per destinare la struttura ad un resort a cinque stelle.
Unico modo per opporsi ai loschi disegni scoperti più per caso che per altro è quello di avviare un'inedita cooperativa femminile che metta insieme la laboriosità delle monache, abilissime nel lavoro di uncinetto, e la capacità imprenditoriale delle ex dipendenti della ditta, finite nel frattempo in cassa integrazione, odiosa anticamera della disoccupazione.
Già da questi pochi dettagli del racconto si possono evincere alcune specificità di Beate.
In primo luoog la scelta di ingentilire un argomento spinoso e complesso come quello del lavoro oggi con i filtri di una commedia garbata che si avvale di personaggi più o meno tipizzati per strappare più che la risata il sorriso indulgente.
Partendo da un versante di ironia british (forte la tradizione in terra di Albione di commedie profondamente radicate nel sociale), ricollocato però abilmente in un riconoscibile contesto italiano (più che i dialetti sparsi in allegra confusione, i personaggi delle monache forti di una tradizione secolare in commedia), Beate ha il sicuro merito di cercare il giusto mix tra denuncia sociale e intrattenimento garbato senza perdere di vista anche il senso di una rivendicazione di genere in un contesto maschilista (nel film alla solidarietà femminile sono sempre opposte figure maschili di potere sfuggenti e fastidiose).
Il gioco funziona soprattutto nella descrizione dell'ambiente lavorativo e nella relazione tra i personaggi, meno quando la tipizzazione della commedia si adagia su soluzioni più apertamente televisive (si pensi a certi dettagli della vita nel convento) ampiamente sostenute da una colonna sonora gradevole anche negli ammiccamenti a soluzioni da “piccolo schermo”.
Coadiuvato da un cast eterogeneo ma sufficientemente affiatato, su cui spicca il coinvolgimento di Donatella Finocchiaro nella parte della protagonista dal piede torto, Amad Zarmandili compone un film fresco e a tratti divertente, che meriterebbe più di quello che una programmazione distratta dal Festival di Venezia riuscirà a garantire.
(Beate); Regia: Samad Zarmandili; sceneggiatura: Antonio Cecchi, Gianni Gatti, Salvatore Maira; fotografia: Cristiano Natalucci; montaggio: Fabio Nunziata; musica: Francesco De Luca, Alessandro Forti (Edizioni Musicali FLIPPER); interpreti: Donatella Finocchiaro (Armida), Paolo Pierobon (Loris), Maria Roveran (suor Caterina), Lucia Sardo (suor Restituita), Betti Pedrazzi (madre Amara), Anna Bellato (Veronica), Orsetta Borghero (Maria), Silvia Grande (Maresa), Cristina Chinaglia (Tina), Licia Navarrini (Iole), Eleonora Panizzo (Rachele), Felicité Mbezele (suor Prediletta); produzione e distribuzione: Dario Formisano; origine: Italia, 2018; durata: 90'
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