Nell'aprile del 1968 arriva nelle sale americane Hollywood Party, terza collaborazione tra il regista Blake Edwards e l'istrionico Peter Sellers, dopo La pantera rosa (1963) e Uno sparo nel buio (1964). La fama che il film si è guadagnato nel corso dei decenni è più che meritata, nei contenuti artistici così come nella tecnica. Proviamo a capire perché.
La storia vede un attore imbranato indiano, Hrundi Bakshi (Sellers), portare involontario scompiglio alla festa di un produttore di Hollywood: ironia vuole che sia stato invitato per un errore, dopo che con la sua apocalittica dabbenaggine ha demolito il set del film sui cui lavorava, prodotto proprio dallo stesso magnate.
Il primo livello di lettura di Hollywood Party è quello che ti rimane dentro quando sei bambino e ti ci imbatti in uno dei tanti passaggi televisivi, prima ancora di avere le capacità di analizzarlo: slapstick, comicità mimica, un cesellamento della gag che cattura progressivamente l'attenzione. Nonostante il film faccia tesoro degli esperimenti cinematografici di Jacques Tati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, filtra la particolare sensibilità del mimo francese per i tempi comici liberi con le radici culturali americane dell'intrattenimento. D'altronde si comincia con una parodia sgangherata: Hrundi sul set sta interpretando una sorta di Gunga Din che combatte fino al martirio al fianco degli Inglesi. Non ha però il senso della misura, e prolunga la sua agonia fino all'esasperazione del malcapitato regista. Corre voce che il copione di tutto Hollywood Party consista solo di 56 pagine, una sorta di canovaccio non troppo specifico, abbozzato dallo stesso Edwards con due sceneggiatori televisivi, Tom e Frank Waldman. Edwards ha infatti la ferma intenzione di improvvisare, conoscendo bene il talento di Sellers in quell'ambito: anche considerando i mediocri risultati ottenuti dai Waldman col goffo tentativo di un recasting di Closeau in L'infallibile ispettore Closeau dello stesso anno (non ce ne voglia Alan Arkin), l'implacabile attore inglese qui dev'essere più che mai coautore di ciò che scorre sullo schermo. La sensazione è rinforzata dal traguardo tecnico del video assist: sul set di Hollywood Party si sperimenta infatti la registrazione contemporanea di ogni scena su un'uscita video, per rivedere immediatamente ciò che si è girato. Ora prassi normale, all'epoca è una svolta non indifferente, che pare abbia spinto il notoriamente maniacale Sellers a imporre ritocchi e retake di molte sequenze.
Parlavamo delle tecniche di comicità. I citati tempi dilatati vengono utilizzati, oltre che nell'introduzione, anche in altri momenti indimenticabili, come la pipì trattenuta disperatamente davanti a un'esecuzione musicale, o lo srotolamento completo della carta igienica in seguito a un semplice singolo strattone. La risata arriva dal non riuscire a prevedere la "chiusura" della gag. Altre volte la chiusura arriva, caricata a orologeria lentamente, con un'esplosione e un prosieguo a sorpresa dopo tale esplosione (se è stato davvero tutto improvvisato, giù il cappello). Un esempio di questa tecnica è nella gag iniziale della scarpa persa nella piscina della casa: Hrundi fa di tutto per recuperarla, quando l'aggancia con mille sforzi gli sfugge e vola catapultata per aria, centra in pieno uno dei camerieri (esplosione), poi ricompare direttamente su un piatto di tartine di un altro cameriere (che non si accorge di nulla: prosieguo a sorpresa). Un altro esempio della stessa soluzione è nella scena della cena, dove Hrundi, costretto su un crudele sgabello, perde il pollo che ha nel piatto, volato direttamente nella capigliatura monumentale di una commensale: si può pensare che la gag sia questa, ma prima di rilassare lo spettatore, Edwards spinge Hrundi a chiedere il recupero del pollo a un cameriere ubriaco. Il salvataggio è effettuato, ma insieme al pollo viene via anche una colossale parrucca.
Suspense, sorpresa: sembrano le regole di un buon horror. Al termine della corsa di ogni scena non c'è la morte o un omicidio, ma un tuffo tragico nell'ignominia, nell'imbarazzo totale.
Registicamente Edwards non sbaglia un colpo: con uno spirito molto moderno privilegia il suono e il rumore d'ambiente alla musica, che peraltro nel film è raramente extradiegetica, bensì diegetica, cioè proviene sempre da una fonte all'interno della scena. Henry Mancini raccoglie la sfida, centrando anche due canzoni originali, tra cui la trascinante "The Party". Nell'assenza di una musica di commento, siamo obbligati a trovare il nostro percorso all'interno delle sequenze, con suggerimenti quasi subliminali: nelle prime passeggiate di Hrundi appena arrivato, fate caso al buffo gracchiare del pappagallo in sottofondo.
Il collegamento spaziale tra uno sketch e l'altro è molto chiaro: al termine del film ci sembrerà di conoscere la planimetria della casa, e non di rado una gag inizia a pochi metri di distanza da un'altra, con il set precedente ancora in vista. Un'altra volta addirittura una singola trovata, quella della puzza di caviale trasferita di mano in mano, attraversa scene diverse. Spesso Edwards usa inquadrature ad ampio respiro (il film è in 2.35:1) per farci apprezzare una gag da lontano, contestualizzata in un'apparente normalità: è il caso della ineluttabile caduta nella piscina di Hrundi o dei pasticci che combina il cameriere ubriaco durante la cena, in rotta con un suo superiore isterico. Gli scontri muti tra questi ultimi due fanno pensare davvero alla gloria di Stanlio & Ollio, mentre una loro rissa visualizzata in pose diverse, mostrate alternate nell'oscillazione delle porte elastiche della cucina, è sul serio degna di Tati e Chaplin.
Non esisterebbe tuttavia comicità vera senza un messaggio anarchico e ribelle. Il triste contesto in cui l'uragano Hrundi Bakshi si abbatte sulla villa merita l'apocalisse. E' vero che agli occhi attuali la macchietta indiana di Peter Sellers, un inglese scurito ad arte e dalla parlata buffa con accento caricaturale, potrebbe fare storcere il naso. Eppure Bakshi è incontestabilmente l'eroe di Hollywood Party. E' imbranato, ma non è senza speranza come Closeau: ha una dignità fiabesca che emerge chiaramente nel climax del film, quando lui e la tenera aspirante attrice Michele (Claudine Longet) sono costretti a cambiarsi d'abito, ad adottare uno stile finalmente casual, mentre la degenerazione della festa raggiunge il punto di non ritorno.
E' allora che i produttori che usano il sesso come merce di scambio hanno la loro, che la cameriera di colore non serve più e si esibisce in una danza, che il cameriere ubriaco smette di simulare ogni deferenza, che l'indiano e la francesina ridiventano finalmente persone e non corpi da usare. La catena di potere che domina tutto e tutti, enfatizzata dal cinismo dello star system, può essere alfine dimenticata sul serio dalla vera festa, quella che la frantuma. Il mondo antico rischia di arrivare fuori tempo massimo: la figlia del produttore irrompe con i suoi amici hippie e un elefantino dipinto. Fuori, nella realtà, Martin Luther King viene assassinato proprio il 4 aprile, giorno dell'uscita di Hollywood Party.
Anche se The Party (questo il titolo originale) perde forse mordente proprio quando Hrundi prende il controllo della situazione, la sua anima non scade mai. Non ci si può dimenticare che Edwards aveva sedotto gli spettatori con Audrey Hepburn che cantava Moon River in Colazione da Tiffany, sette anni prima. La Longet che canta delicata "Nothing to Lose" ("Niente da perdere") non può esserle all'altezza, ma il messaggio è chiaro: terminato lo sfogo, Hrundi e Michelle forse a Hollywood non lavoreranno mai più. A maggior ragione si meritano un finale non comico, ma da romcom: lontano dalla falsità, l'amore in fondo è una cosa seria anche per due pesci fuor d'acqua.
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