mercoledì 25 aprile 2018

Mario Martone al Bif&st: pensieri e ricordi di un regista favoloso

Ha fatto solo sette film (ed è un peccato) Mario Martone, che è reduce dal successo a teatro de "Il sindaco del rione Sanità" e che ha cominciato nel '91 con Morte di un matematico napoletano, proseguendo con l'adattamento del primo romanzo di Elena Ferrante "L'amore molesto" e arrivando a immergersi nel mare magnum dell'Ottocento italiano, protagonista del pluripremiato Noi credevamo e de Il giovane favoloso, biografia per immagini di un Giacomo Lopardi con il volto (e il corpo) di Elio Germano. E proprio questo film, che tanto è piaciuto, è stato presentato al pubblico del Bari International Film Festival. A fine proiezione, il regista ha tenuto una masterclass e del suo nuovo film (il settimo) non ha voluto rivelare nulla, se non che si intitola Capri Battery e che ospita una galleria di personaggi che hanno meno di 30 anni. In una lunga chiacchierata cominciata con un augurio di buon 25 aprile, l’autore di Teatro di guerra ha parlato, intervistato da Enrico Magrelli, della sua formazione negli anni Settanta, dei suoi lavori e di uno strano rituale che precede l'inizio di ogni suo film.

Rituali scaramantici
Ho girato troppi pochi film per fare un bilancio, con ognuno ho un rapporto fortissimo, però per ogni film c'è un rito a cui sono molto legato. La sera prima di cominciare le riprese, chiamo il mio piccolo gruppo di lavoro e impongo a tutti di vedere un film. Prima di Morte di un matematico napoletano abbiamo visto Il giudizio universale di Vittorio De Sica, prima de L'amore molesto Viaggio di Italia di Roberto Rossellini, per Teatro di guerra La regola del gioco di Jean Renoir, per L'odore del sangue avremmo dovuto vedere L'impero dei sensi ma non ci siamo riusciti, e infatti il film è andato male. Prima di Noi credevamo abbiamo visto Vanina Vanini, sempre di Rossellini, e prima de Il giovane favoloso Un angelo alla mia tavola di Jane Campion. Per Capri Battery abbiamo visto sequenze di tre film: Il miracolo di RosselliniZabriskie Point di Antonioni e Il disprezzo di Godard.

Noi credevamo
Io dell'800 italiano non sapevo nulla, da studente non mi attraeva, ogni volta che ci pensavo, mi venivano in mente polvere e lunghe barbe. Poi, nel 2004, quando si parlava ancora molto delle Torri Gemelle e del terrorismo, ho cominciato a chiedermi: ma com'è possibile che il nostro paese, che ha fatto una guerra per la liberazione dallo straniero, conosca solo pagine o di grandi battaglie o di grandi diplomazie? Possibile che non esista un "sotto", una parte sporca? Sulla spinta di questa domanda, ho cominciato a scartabellare libri e ho scoperto, per esempio, che Mazzini era in realtà considerato un elemento pericolosissimo dalle polizie straniere, e che Cavour aveva deciso perfino il luogo, a Genova, in cui l'avrebbe fatto impiccare. Il passato mi è venuto incontro con violenza e contraddittorietà e il viaggio all'indietro l'ho fatto con Giancarlo De Cataldo, avevo bisogno di un viaggio rosselliniano nella materia della storia.

Giacomo Leopardi
Durante la lavorazione di Noi credevamo c'era una voce che mi guidava, la voce di Leopardi, "Noi credevamo" era il titolo di un romanzo in cui già era fortemente presente la disillusione, una sensazione che Leopardi conosceva bene… le cosiddette "magnifiche sorti e progressive". Questo fondo di dolore e disincanto non era lontano nemmeno dagli scritti di Mazzini, che da una parte sentiva il desiderio di lottare, credere e progredire, mentre dall'altra avvertiva un forte senso di ineluttabilità. Queste due tensioni si sentono in Leopardi, e dire che è stato solo un pessimista è sbagliato. Leopardi era fortemente attaccato alla vita, però non si faceva illusioni. Le persone che non lo amano dicono che le sue opere sono roba da adolescenti, il che in un certo senso è vero, perché Leopardi teneva sempre la propria mente e la propria anima aperte e non voleva cedere alle convenzioni e ai conformismi. Anche per questo non era amato alla follia "Sono tollerato", diceva. Leopardi, nell'800, era ciò che è stato Pasolini nel '900.

Gli esordi e Napoli negli anni Settanta
Ho esordito a teatro quando avevo 17 anni. Molta della mia formazione dipende dall'aria che si respirava alla fine degli anni Settanta. Oggi si parla di quel periodo come gli anni di piombo. C'era lato cupo, d'accordo, ma quel decennio è stato un momento di grande esplorazione sociale ed artistica, e a Napoli c'era un'energia esplosiva, cerano molte importanti iniziative sociali di riorganizzazione. Il teatro era molto vivo, Eduardo era in piena attività, c'era ancora la sceneggiata napoletana. Poi esisteva tutto un altro mondo collegato alla galleria di Lucio Amelio, che portava grandi artisti internazionali come Joseph Voyce e Andy Warhol, c'era la cineteca di Mario Franco in cui vedevamo il nuovo cinema tedesco e i vecchi film di una volta, c’'erano la musica e la danza e il teatro di avanguardia. Tutto si mescolava, conoscevo Tony Servillo, c'era il teatro di cantina, uno spazio libero dove si poteva andare e fare quello che si aveva in testa, potevi stare con chi condivideva le tue spinte, si recitava ma c'erano anche istallazioni, performance miste. E’ stata quella la nostra grande palestra. Quanto al cinema, è sempre stato la matrice originaria, all'inizio lavoravo sulle immagini usando il proiettore per diapositive di mio papà, inventavo cose, mi piaceva il montaggio, poi ho cominciato ad avvertire il bisogno di costruire un rapporto con il testo.

Morte di un matematico napoletano
Morte di un matematico napoletano è un film indipendente, Cacioppoli era una leggenda negli anni '50 a Napoli, ma io avevo una mia idea: raccontarlo nell'ultima settimana di vita, facendo riaffiorare, come in flashback proustiani, i suoi ricordi. Avevo 30 anni, mi guardavano strano, mi dicevano: "Forse potresti riscrivere la sceneggiatura", volevo Carlo Cecchi, che non aveva mai fatto un film, allora c'era l’articolo 28 e ottenemmo 500 milioni, le case dove girammo erano degli amici, nessuno prese un soldo. Era un film in costume ma non potevo riscostruire la Napoli degli anni '50, però, siccome mi piaceva l'idea di una città vuota, di una certa rarefazione, andai a cercare tutti i luoghi che non erano cambiati nel tempo. La mia macchina da presa ritagliava solo spazi rimasti immutati dall'epoca del mio protagonista. Adesso tutto è cambiato, oggi non sarebbe più possibile fare una sola inquadratura di quel film ormai inghiottito dalla trasformazione urbanistica.

L'amore molesto
L'amore molesto è un film opposto a Morte di un matematico napoletano, un film di corpi, di macchine rumorose. Il romanzo di partenza era bellissimo, quando lo lessi, i suoni mi venivano incontro in maniera pazzesca, ancora prima delle immagini. Anna Bonaiuto fu straordinaria, il film andò a Cannes ed ebbe successo. Eppure all'inizio non sembrava avere grande attrattiva per i produttori. La Ferrante era una sconosciuta, la storia di una donna che indagava in un mondo di anziani non era un argomento di richiamo. Alla fine producemmo il film con Teatri Uniti e la Lucky Red di Kermit Smith e Andrea Occhipinti.



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