Come si fa a tradurre in immagini la complessità di un romanzo-diario scritto da un'icona della letteratura francese come Marguerite Duras? E come si fa a filmare l'assenza, il desiderio di un ritorno che diventa ora disperazione e disillusione, ora paura dell'orrore del corpo emaciato e dello spirito distrutto dell’amato tenuto prigioniero in un campo di concentramento, ora infantile sogno a occhi aperti del ritrovarsi e abbracciarsi, ora senso di colpa per un tradimento? L'impresa è realizzabile solo se a monte c’è una grande passione per l’argomento trattato, una perfetta padronanza del mezzo cinematografico e una forte identificazione con il personaggio di cui si penetra l'anima e si narra l'annullamento del sé e la devastazione interiore e anche fisica. Tutte queste caratteristiche La douleur le possiede.
Alla Duras Emmanuel Finkiel è, vicino, anzi, vicinissimo, perché, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, suo padre ha aspettato, fra lo speranzoso e il rassegnato, il ritorno da Auschwitz dei genitori e del fratello, assaporando l'inquietudine e l'insensatezza del tempo morto dell'attesa. La sfida, però, nel film, era rendere questo tempo vibrante, svincolarlo dal flusso di coscienza di un'opera letteraria e legarlo al trascorrere dei mesi, lasciando tuttavia il cuore straziato di chi aspetta prigioniero di un limbo. La sfida era anche uscire dal dramma esistenziale per inoltrarsi nel territorio del thriller storico, della ricostruzione di un'epoca dall'iconografia affascinante ma fin troppo rappresentata. Nonostante una certa verbosità e ripetitività, il regista si è rivelato all’altezza di ognuno di questi compiti, e ci è riuscito per due ragioni. Innanzitutto perché a impersonare la moglie dell’intellettuale Robert Antelme che nel 1944 fu arrestato e deportato prima a Buchenwald e poi a Dakau, ha chiamato un'artista sublime come Melanie Thierry, che non imita goffamente l’autrice di "Memorie di Adriano", ma ne interiorizzala sofferenza, le parole ardenti e l’impetuosità di sentimenti.
Piccola, esile e con il viso sgualcito, gli occhi cerchiati e una sigaretta in bocca che fa tanto cinema francese anni '30, la sua Marguerite sembra spezzarsi ma in realtà ha la tempra di un'eroina, ed è una donna prima che una scrittrice, e quindi un personaggio che chiama più facilmente all'identificazione. Se non fosse per l'ammirevole capacità di colei che la interpreta di esprimere un'infinita gamma di emozioni attraverso un semplice sguardo, non potremmo tornare nella Parigi dell'epoca e capirla (e viverla) così a fondo, coglierne umori e suggestioni, assaporare la quasi isterica allegria dei sopravvissuti e la desolazione di quelli rimasti orfani dei congiunti.
E’ questa rappresentazione - in soggettiva - della capitale francese occupata dai Nazisti l'altro punto di forza di La douleur, che mostra una città che è rumore di clacson, sirene che annunciano bombardamenti, chiacchiericcio nei bistrot e gente che si affolla nel fuori-campo, ma anche luogo dell’alienazione e dell'assurdità della vita. Finkiel la filma con ricercatezza ed eleganza, soffermandosi su un cappellino, sulla Gare D'Orsay in cui arrivano i prigionieri dei tedeschi, oppure trasformandola in un luogo quasi metafisico con una Place de la Concorde deserta attraversata da una donna vestita di rosso in bicicletta. E la donna è Marguerite, che pedala veloce per tornare al chiuso e che, fuori dal suo carcere semibuio, deve stordirsi con il vino per flirtare con un ufficiale della Gestapo un po’ innamorato di lei.
E’ una martire questa donna? Forse no, il martire, di certo, è suo marito, che però, intelligentemente, Emmanuel Finkiel riduce a una silouhette, a una piccola macchia sfocata nel mare di Liguria, a un'immagine osservata da dietro le tende giusto per un attimo. In questo La douleur dimostra un giusto pudore. Laddove invece il film è di una sincerità disarmante, e di una notevole sottigliezza, è nella natura stessa della sofferenza in cui si tuffa e che mette radici così profonde nella protagonista da diventare una necessità, una dipendenza: è il cosiddetto dolore di per sé, una nostalgia svuotata, una mancanza che l'oggetto finisce per allontanarlo, perché la rappresentazione della realtà supera, per appeal e tragicità, la realtà stessa, che in fondo è quasi sempre un po’ banale.
Anche se Marguerite Duras, come molte donne che ebbero il suo stesso destino, fu ripagata dell’attesa e amò altri uomini, La douleur sembra dirci che certi lutti non si superano mai, che certe ferite non si rimarginano, che la guerra porta dolore ma anche distanza, allontanamento dagli altri e perfino da se stessi: dal contatto diretto con le proprie emozioni e con la propria fragilità. E’ una riflessione profonda e arguta, contenuta in un racconto che tuttavia procede lento, troppo lento, accompagnato da una voce fuori campo che lo rende letterario e magari ostico a chi non ha grande familiarità con il cinema francese d'autore.
La douleur è stato presentato in anteprima nazionale al Bari International Film Festival 2018
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