venerdì 19 febbraio 2021

I Care a Lot: la recensione del film con Rosamund Pike e Peter Dinklage

“I am a fucking lioness”, dice Marla Grayson al termine del monologo (molto primi anni Duemila, e un po' Adam McKay) che apre I Care a Lot.
Le leonesse si distinguono dai leoni per non avere la criniera: eppure i capelli di Marla, in questo film, sono importantissimi. Sono la prima cosa che vediamo di lei, inquadrata in primo piano di tre quarti, ma da dietro. Un caschetto biondo platino dal taglio precisissimo, senza un capello fuori posto. Un casco da guerriera, che si apre solo quando Marla porta una ciocca dietro l’orecchio e svela così, grazie anche al movimento della macchina da presa, parte del volto.
I capelli sono importanti. Come decidiamo di portarli dice molto di noi stessi: ne ha parlato di recente anche Marco Belpoliti in un contestato articolo su Repubblica.
E per avere dei capelli così, per permettersi un taglio così e tenerlo in questo modo, devi essere una persona scrupolosa, metodica, precisa. Implacabile e dotata di una determinazione raggelante. Proprio com’è Marla.
E non a caso, quando le cose si faranno complicate per lei, la prima a risentirne sarà proprio la sua acconciatura.
Ma andiamo con ordine.

Marla è spietata. Marla si appoggia a medici corrotti e giudici babbei per ottenere la tutela legale di anziani indifesi, che rinchiude nelle sue case di riposo e di cui gestisce beni e liquida proprietà. Intascandosi il bottino. Se poi ci sono figli, poco male: con la legge dalla sua parte, Marla impedisce loro qualsiasi contatto coi genitori.
Se poi i figli non ci sono, meglio ancora. E difatti Marla crede di aver trovato in Jennifer, una senza famiglia né amici, e un bel po’ di soldi da parte la vittima perfetta. Il problema è che non è proprio esatto che Jennifer non abbia parenti. E che questi parenti siano assimilabili alle parole “mafia russa”.
Ma Marla, l’abbiamo detto, è una leonessa. È spietata e implacabile. Tanto di mettersi in guerra pure con nemici che avrebbero fatto scappare con la coda tra le gambe felini ben più spavaldi di lei.
I Care a Lot ha molto in comune con la sua protagonista.
Con la Marla di una Rosamund Pike assai brava (e candidata al Golden Globe), tanto algida e biondissima che avrebbe fatto impazzire il vecchio Hitchcock, capace di regalare un’interessante evoluzione turboliberista della Amy Dunne di Gone Girl.
Come Marla, il film di J Blakeson è spietato, implacabile. Sgradevole. Eppure, dotato di un fascino perverso, e di un controllo meticoloso sulle sue azioni e le sue evoluzioni, tanto da rimanere sempre composto, controllato, e non perdere mai staffe o trebisonda, o andare sopra le righe, e da rimanere sempre concentrato sul suo scopo.
Che, nel caso del film, è prima di tutto quello di raccontare una storia.

Certo, in I Care a Lot si parla di questioni raggelanti che purtroppo sono accadute e accadono davvero: le pratiche di Marla, e l’uso degli anziani come mucche da mungere. Ma quest’elemento di critica sociale, che poi per Blakeson è satira, non diventa mai preponderante sul versante thriller. Sul confronto - prima a distanza, e poi ravvicinato tra Marla e il figlio segreto di Jennifer, il calmissimo (ma non sempre) mafioso russo di Peter Dinklage. Un confronto avvincente nella trama, e godibilissimo sul piano della recitazione (a proposito di recitazione: di fronte a Dianne Wiest, che interpreta Jennifer, c’è da levarsi il cappello come sempre).
Personaggi, questi, che sono chiaramente cinematografici, e non inseguono ossessivamente la verosimiglianza, concendosi perfino qualche tratto vagamente fumettistico: ma si tratta di scelte stilistiche che s’innestano con precisione nel disegno di Blakeson, che al thriller e alla satira sociale, acidissima, associa anche un bel pizzico d’umorismo nero e cartoonesco.
E per inciso: Dinklage a parte, la sua organizzazione non brilla troppo per efficacia. Ma, ancora una volta, fa tutto parte del gioco.

Con tagliente e sardonico cinismo, J Blackeson ci racconta, come tanti altri prima di lui, che il Sogno Americano è diventato un incubo, con predatori mefistofelici pronti a scendere a patti con qualsiasi diavolo e calpestare chiunque pur di salire la scala che li porta al successo e al denaro: adeguando l’acconciatura di conseguenza. E se a tratti emerge un tratto d’umanità, legato all’amore, il suo raggio d’azione è ridotto al minimo indispensabile, e poi viene subito rimesso sotto il tappeto.
Non racconta molto di nuovo, I Care a Lot, ma lo fa bene, e con stile: anche qui non nuovissimo, magari, ma divertito e divertente. Senza prendersi troppo sul serio, o esagerare con le sue ambizioni. E senza nemmeno risparmiarsi un finalissimo che riesce abbastanza bene nella sorpresa e si porta appresso un retrogusto acido che è perfettamente in linea con quello di tutto il film.
Quello di un film che racconta personaggi e azioni immorali, con lo scopo, dissentamente e fortunatamente amorale, di intrattenere il suo spettatore.



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