L’edizione 2020 del Torino Film Festival, come ovvio molto particolare, vista la pandemia in corso, è partita con un film messicano di notevole interesse, capace di costruire un universo visivo capace di andare al di là della semplice, e molte volte rappresenta, ondata di emigrazione dalle province rurali del paese fino agli Stati Uniti, muro permettendo.
Transitato per il Sundance, Sin Señas Particulares è l’esordio alla regia di Fernanda Valadez e racconta di una donna del nord messicano, Magdalena, che si preoccupa non sentendo da un mese notizie del figlio, partito per attraversare il confine con gli Stati Uniti. A quel punto si mette in viaggio in prima persona, lungo un paese desolato e desertico, come un cavaliere errante di un western, alle prese con un viaggio verso una frontiera che non le appartiene, quella del figlio, in un percorso lungo una realtà quasi distopica.
Una madre in cerca di figlio, che incontra un figlio, Miguel, che vuole a tutti i costi partire, anche perché è la madre a volerlo, avendo risparmiato per questo, ma che ora sembra sparita e la sta cercando, una volta tornato a casa dopo essere stato deportato come immigrato illegale. “Se non fosse accaduto, non sarei mai tornato, e non le ho mai mandato i soldi”, dice fra le lacrime e i sensi di colpa, rendendosi conto di aver violato uno dei comandamenti di chi parte: farlo mandando aiuti a chi resta, non solo in cerca di fortuna personale.
Magdalena e Miguel, che sembrano poter ricreare, in un mondo ideale, un minimo nucleo famigliare, ma il Messico raccontato da Fernanda Valadez è una realtà respingente, popolata da fantasmi nel deserto, con pochissimi incontri, in cui i due protagonisti. oltretutto, non trovano certo empatia. Una una realtà che si fa sempre più cupa, notturna, in cui iniziano a giungere delle risposte decisamente poco confortanti, delineando un mondo grigio e malato, senza possiblità di distinguere fra aggressori e vittime.
Il muro non si vede o quasi, ma è lì sempre presente, incombe, in un film che ci regala un punto di vista diverso sulla realtà dei migranti lungo il Rio Grande, in cui i due protagonisti pagano le conseguenze di scelte altrui, subendo la presenza di quel confine come un destino a cui è impossibile sfuggire. Finale un po’ programmatico, ma Sin Señas Particulares è un esordio da applaudire e vale la pena segnarsi il nome di Fernanda Valadez.
Sempre in concorso e sempre di provenienza Sundance, ci spostiamo in un’altra realtà rurale in crisi, ma siamo negli Stati Uniti, sui Monti Appalachi, in una zona nota come rust belt, arrugginita come i resti ormai abbandonati di miniere e industrie estrattive, che una volta erano al centro dell’economia di stati come il West Virginia e alcune contee dell’Ohio e del Kentucky. Siamo dalle parti dei bianchi in crisi raccontati da Ron Howard, e prima dallo scrittore J.D. Vance, in Elegia americana, nelle zone che nel 2016 si rivolsero a Trump per cercare una ricetta segreta per la riscossa sociale, oltre che economica.
The Evening Hour, a sua volta nato come romanzo, è il ritratto di un paesotto in disfacimento, in cui il giovane Cole cerca di cavarsela, dividendosi fra un tirocinio come infermiere, il sincero desiderio di aiutare i tanti anziani in difficoltà, nonna in prima persona, e lo spaccio di droga che gli permette di farlo. Il paese è popolato da suoi vecchi amici ormai tossici o piccoli criminali, mentre Cole porta avanti una relazione con l’ex di uno di questi, Charlotte, a sua volta addicted, interpretata sorprendentemente, e un po’ fuori contesto, dalla franco britannica Stacy Martin. Tutti hanno un passato, nessuno sembra poter avere un futuro, tanto che è naturale tifare per Cole, perché almeno lui ce la faccia. Un dramma prevedibile in un labirinto ormai inestricabile, The Evening Hour è un tipico film indie del laboratorio del Sundance Film Festival, senza estetizzazioni formali, ma con una certa piattezza visiva che ci accompagna lungo un percorso già scritto.
A concludere la prima giornata del concorso Torino 38, Las Niñas, una delicata pellicola spagnola nobilitata da una gran bella interpretazione dell’esordiente Andrea Fandos, uno sguardo di formazione sulla pubertà e sull’affacciarsi all’adolescenza, tra dubbi, insicurezze e tanta voglia di risposte a mille domande. Siamo nei primi anni ’90 a Saragozza, dove Celia, dolce ragazzina di 11 anni, frequenta un collegio cattolico e vive sola con la madre, che si dà molto da fare, facendo le pulizie e lavorando spesso anche di notte.
Opera prima di Pilar Palomero, Las Niñas ci mostra il primo momento in cui il candore di Celia si scontra con un mondo in cui non sempre gli adulti mettono in atto quello che predicano, e pretendono dai più piccoli. Bugie bianche, e non solo, non mancano, mentre la giovane inizia a confrontarsi con le amiche e compagne di scuola, ponendosi domande sulla sua famiglia e sui tanti silenzi che la circondano. Il tutto scaturisce dall’arrivo in classe di una compagna che viene da Barcellona, fuori dalla loro bolla, e porta con sé i primi piaceri, più o meno maliziosi, dalla musica ai vestiti, dal trucco alle prime curiosità nei confronti dei maschi, così alieni alla sua quotidianità di scolara in una classe tutta al femminile.
Sensibile e molto attento a rimanere ad altezza di Celia, il film è piacevole e perfetto per una visione non didattica, ma di pura e sana condivisione, con figlie o nipoti.
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