Mentre il concorso del Festival di Torino arriva alla metà del suo percorso, dopo alcuni titoli interlocutori, una piacevole sorpresa arriva dalla Corea, con la grazia di un ritratto familiare quotidiano à la Kore-eda e la spietatezza dei ruoli sociali in quel contraddittorio e affascinante paese asiatico.
Moving On è l’opera prima della giovane regista Yoon Dan-bi, reduce da quattro premi al festival di Busan, il più importante della Corea, e dal riconoscimento come promessa del futuro a Rotterdam. Insomma, una sorpresa molto piacevole, il suo film, ma che arriva già con un apprezzamento ottenuto in giro per il mondo. Il film ci conduce alle porte della grande metropoli Seoul, durante le vacanze estive, quando Okju e Donju sono fratello e sorella litigarelli, costretti dal padre in crisi economica a trasferirsi a casa del nonno, anziano e malandato, e apparentemente non più molto lucido.
Il maschietto più piccolo, Donju, si adatta facilmente al giardino e alla villetta, mentre l’adolescente e irrequieta Okju è costantemente immusonita e a disagio. Le cose cambiano quando arriva la zia, ai ferri corti e pronta al divorzio con il marito, che riesce a coinvolgere nelle pigre giornate estive anche la più grande, costruendo una dinamica collettiva, familiare, che non hanno mai conosciuto. Il nonno però si ammala, e zia e padre riflettono seriamente sulla possibilità di vendere la villetta, chiudendo il capo famiglia in una casa di cura.
Una storia, ci viene detto, molto personale, basata sull’esperienza di Yoon Dan-bi, che ci conduce nelle dinamiche complesse delle varie generazioni di una famiglia coreana, a tratti così impersonali e anaffettive da essere incomprensibili per noi italiani. Non è certo spietato come la studio di classe Parasite, in cui le famiglie erano poste di fronte alla violenza dei rapporti fra nuclei sociali, ma Moving On, pur con grazia ed eleganza, sa mettere a segno pennellate dure sulla dimensione utilitaristica dei rapporti fra le generazioni, con gli anziani sacrificabili per la crisi economica dei figli, e in generale la frequentazione reciproca così limitata da impedire la costruzione di una vera rete solidale e affettuosa, utile come protezione in caso di difficoltà e come esempio per supportare l’educazione e la crescita dei più giovani.
Moving On si prende il tempo di delirare un ritratto credibile, e malinconico, delle solitudini di ognuno dei suoi personaggi, dal nonno che viene trattato come un soprammobile, e deve aspettare la notte per godersi i suoi momenti solitari ascoltando canzoni struggenti, pensando alla moglie morta, sorseggiando del soju, alla nipote ossessionata come tanti connazionali dalla grandezza degli occhi, e sogna di ingrandirli con un’operazione di chirurgia plastica. Un percorso inatteso di convivenza forzata che permetterà, attraverso prima un’opera di riflessione su sé stessi, anche alla famiglia nel suo complesso di delinearsi attraverso un mai provato amore reciproco, anche se a prevalere è più la malinconia di un piacere scoperto tardi, forse addirittura troppo tardi.
Sempre in concorso una conferma della vitalità originale del cinema brasiliano. Casa de antiguidades è un altro film che viene da quelle parti e cerca delle chiavi sensoriali originali, una visionarietà che utilizza la grande varietà e ricchezza culturale e spirituale di quel paese infinito per raccontare la crisi sempre più grave del lavoro.
L’ennesima umiliazione colpisce un uomo che da molti anni lavora in un caseificio di proprietà europea, per la precisione tedesca, lingua che accompagna molta parte del film. “Siamo venuti qui per fare innovazione”, termine così abusato da chi sta per calare la mannaia, una vera stella polare. “Dobbiamo chiudere e spostarla dal nord al sud”, dice poi all’operaio il boss dell’azienda, inquietante e minaccioso con i suoi discorsi mille volte ascoltati sulla necessità “di fare tutti un piccolo sforzo”. In che senso? Il salario diminuirà, ovviamente.
Il nostro si sposterà nel ricco sud, con le stigmate e il colore della pelle che richiamano i poveracci del nord, finendo per occupare una casa di legno in rovina e avere molti problemi nell’ambientarsi nella nuova realtà, come un alieno, un corpo estraneo. La realtà rurale è ritratta come fosse una colonia estiva nazista, fra ragazzini che si aggirano in bermuda e fucile e la birra a fiumi, con tanto di balli folk bavaresi. Metaforico, sempre più cupo e oscuro, Casa de antiguidades è il racconto dell’arroganza sempre maggiore del potere economico e della reazione primordiale, sempre più feroce di chi lo subisce. Si perde in giri a vuoto, magari anche affascinanti, ma un po’ fini a se stessi, ma contiene non pochi elementi interessanti.
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