lunedì 2 novembre 2020

Borat - Seguito di film cinema

A quattordici anni di distanza dal suo debutto dietro la cinepresa malandata dell'amico Azamat (Ken Davitian), l'ottuso e cervellotico Borat (il geniale Sasha Baron Cohen) torna sullo schermo – o meglio, sui monitor iridescenti in cui l'immagine in movimento, anche durante la quarantena, prosegue i suoi viaggi pindarici nel pianeta. Per partecipare, a suo modo, alla campagna elettorale contro Trump, l'autore l'ha venduto a Amazon Prime che lo distribuisce in tutto il mondo. E lì è visibile anche per il pubblico italiano.

Il film non delude le aspettative: fin dalle prime inquadrature, veniamo scagliati in un enorme e asfissiante calderone mediatico dai contorni paradossali, finendo per smarrirci negli innumerevoli -ismi che ribollono senza sosta. Complottismo, femminismo, razzismo, antisemitismo trasudano spudoratamente da questo paiolo immondo, aggiungendo alla già sgradevole mistura quel pizzico di misoginia e di pedofilia che rendono il tutto indigeribile: il reporter più improbabile della storia del (finto) cinema non si fa mancare nulla e, anzi, ci rende conniventi di una quotidianità tanto inverosimile quanto reale.

Prelevato dal gulag in cui si ritrova rinchiuso per aver recato disonore alla propria patria, il giornalista kazako viene arruolato dal suo governo e predisposto, così, a rivendicare la dignità nazionale perduta. Come? Ma è semplice: recando in dono a Donald Trump e al suo vice Mike Pence una scimmia, per altro ministro della cultura. Così Borat viene caricato su un cargo merci e trascinato ai quattro angoli del pianeta, fino a riapprodare nel Nuovo Mondo. Ad irrompere sul palcoscenico, tuttavia, è la figlia Tutar (una ottima Marija Bakalova), devotissima al padre-padrone e pronta ad infiltrarsi pericolosamente nella sua ultima missione, sostituendo il primate destinato al Presidente degli Stati Uniti d'America.

La trama, intenzionalmente farraginosa, non può che involversi nelle modalità più imprevedibili: abbandonato il tradizionale costume verde, Borat inizia la sua seconda epopea attraverso la cosiddetta civiltà umana – o ciò che ne resta, sempre che qualcosa di meglio sia mai esistito. Vestendo i panni di un personaggio-icona che, per non farsi riconoscere, decide di mimetizzarsi fra i cittadini americani medi, Sasha Baron Cohen si dimostra un mago del travestitismo: ancora una volta, lo vediamo correre lungo l'intero Paese, scontrandosi in attori fin troppo ordinari e rendendoci protagonisti di una farsa dai tratti insopportabilmente funesti. Chirurghi plastici, venditori, politici, attivisti e menefreghisti di professione si alternano davanti alla cinepresa, inconsapevoli del ruolo che ricopriranno all'interno di questa nuova Odissea, abbandonandosi ad una familiare negligenza. Fra le pagine del Vangelo secondo Borat, ciò che irrita lo spettatore non sono tanto l'infida modalità di ripresa, l'inganno da candid camera e il pubblico ludibrio a cui vengono esposte le vittime-carnefici, quanto l'antipatica consapevolezza di non rappresentare, nel proprio intimo, un'eccezione alla regola. È come se il reporter e la sua banda di scalcagnati seguaci ci gettassero in faccia una verità che preferiremmo ignorare. Durante una manifestazione di estrema destra, Cohen intona una canzone razzista, ottenendo il plauso del pubblico: e del resto, cosa vi aspettavate? Insinuatosi al comizio di Pence, il giornalista provoca l'indignazione generale assaltando la sala nelle vesti di Trump. Ma in fondo, come sarebbe potuta andare diversamente? Ad un convegno di donne repubblicane, Tutar scopre la sessualità e rende partecipe l'auditorio esterrefatto dell'inaspettata epifania. Ancora una volta, nulla di nuovo sul fronte occidentale: quale altra reazione avrebbero mai potuto avere queste madri di famiglia? Con le mani davanti alla faccia e un ghigno forzato, non possiamo fare a meno di porre la più retorica e nociva delle domande: Cosa vi aspettavate?

Il grottesco dunque si spinge all'eccesso, superando tutte le sfaccettature della commedia (perfino di quella più demenziale), gettandosi nell'orrido puro. La pellicola non fa ridere (almeno a noi) ed è difficilissimo, nell'irresistibile imbarazzo e nello strano senso di colpa sprigionatisi dai fotogrammi, mantenere gli occhi aperti fino alla fine. Esiste un termine inglese, gustosamente abusato da milioni di utenti, in grado di riassumere il fastidioso umorismo di cui Borat, perfino in questo surreale 2020, continua a servirsi: quella parola è cringe, e abbraccia un campo semantico tanto vasto quanto indefinibile nella sua reale essenza. Cercate sul dizionario e troverete, nell'ordine: strisciare, acquattarsi, rannicchiarsi, umiliarsi, essere servile e insieme farsi piccolo per la paura. Tale profluvio di timore e disagio spinge il pubblico non solo a riconoscersi nelle iperboliche performances messe in scena dal reporter, quanto a negare vergognosamente la propria stessa partecipazione – ma senza sufficiente sicurezza. “E ora” come grida Cohen prima di lasciare il posto ai titoli di coda “votate. O sarete giustiziati”.

(Borat – Seguito di film cinema); Regia: Jason Woliner; sceneggiatura: Sacha Baron Cohen, Peter Baynham, Nick Corirossi, Jena Friedman, Anthony Hines, Lee Kern, Dan Mazer, Nina Pedrad, Erica Rivinoja, Dan Swimer; fotografia: Luke Geissbuhler; montaggio: Craig Alpert, Michael Giambra, James Thomas; interpreti: Sasha Baron Cohen (Borat Sagdiyev), Marija Bakalova (Tutar Sagdiyev); produzione: Four by Two Films; distribuzione: Amazon Prime; origine: USA 2020; durata: 96'.



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