Andrea Segre è un regista di film e di documentari. Il suo ultimo lavoro, L'ordine delle cose, è stato presentato allo scorso Festival di Venezia, come molti suoi film precedenti.
Ma Andrea Segre è, tra tante altre cose, anche distribuore attraverso la ZaLab Distribuzione, costola dell'associazione ZaLab che ha creato assieme a quattro altri filmmaker per la produzione, distribuzione e promozione di documentari sociali e progetti culturali.
Dal 19 aprile ZaLab distribuirà nei cinema l'ultimo film del documentarista austriaco Michael Glawogger, Untitled, che esce postumo tre anni dopo la morte del regista in seguito a una malaria mal diagnosticatagli in Africa: e proprio di questo film e di Glawogger Segre ha discusso con Attila Boa, operatore del film e amico del regista.
Il risultato della loro conversazione è questo testo, che Andrea Segre ha voluto gentilmente offrire in esclusiva a noi di Comingsoon.it, e che volentieri pubblichiamo.
VIAGGIO SENZA FINE
Dialogo con Attila Boa - operatore del film Untitled di Michael Glawogger
di Andrea Segre
“Ne parlavamo da anni, appena c’era occasione: fare un film senza tema, senza quella cosa maledetta che nel nostro lavoro si chiama “topic”. Su cos’è il nuovo film? E’ la domanda che ti fanno sempre. Aver l’occasione di non poter rispondere era il nostro sogno. Ne parlavamo sempre, appena ce n’era occasione” Così inizia il racconto di Attila Boa, operatore e amico di Michael Glawogger, con cui ho avuto l’occasione di parlare qualche giorno fa. “Non sono capace di fare interviste, mi riesce difficile. Ti prego parliamo e basta. Poi tu scriverai.”
E così abbiamo trascorso un’ora a parlare, a capire insieme cosa è stata e cosa è ancora quest’opera incompiuta o forse “incompibile” (esiste? Non so, Word lo segna come errore, e allora lo tengo, che mi piacciono gli errori che Word non sa correggere).
Un film capace di essere viaggio, non di raccontare un viaggio.
“Per due anni Michael ha cercato di trovare i soldi per far partire il più infinanziabile dei progetti. Oggi volta che andava a un appuntamento con produttori e distributori quasi si divertiva. Il dossier era composto da tante pagine bianche. Raccontava che l’idea era partire da casa e tornare a casa dopo un anno e filmare lungo la strada ciò che ci colpiva, che ci piaceva, nell’attesa che tutto prendesse in qualche modo senso. Ci ha messo due anni a trovare i soldi, ma alla fine ce l’ha fatta e così siamo partiti. In tre in una macchina direzione sud est. Sempre solo noi tre, con Monika (Monika Willi, la montatrice e coautrice del film) che aspettava a casa appunti di viaggio e in ogni paese un traduttore disposto a viaggiare con noi.”
Austria-Ungheria, Serbia, Bosnia, Italia, Marocco..
E sempre più a sud.
Con il peso splendido di una libertà troppo grande.
“Eh sì, all’inizio eravamo quasi in panico. Giravamo qualcosa ogni giorno e ogni giorno ci chiedevamo cosa stessimo girando. Non hai alcun vincolo, non c’è nessuno che si aspetta un film sul riscaldamento globale o sull’immigrazione, non c’è nessun approfondito studio che guida la tua ricerca. Sei libero e quindi terribilmente confuso. E’ un tensione davvero strana. Rischi di soffocare in questa libertà. Ma poi ogni volta che stai per soffocare succede che incontri qualcuno o qualcosa che d’improvviso ti ricorda che tutto ciò invece ha molto senso.”
Il senso di poter ascoltare l’umanità e di non doverla interrogare. Un senso di rispetto e conoscenza che oggi è davvero raro poter contenere e da cui è ancora più difficile lasciarsi guidare. Il mondo in cui vive oggi il narratore professionista è quello della competizione tra soggettività, tra esperti di o scopritori di. Chi prima arriva a dimostrare o ancora più semplicemente a mostrare qualcosa allora ha vinto. La corsa è costante. La pausa lunga finalizzata non a scoprire, ma semplicemente ad ascoltare è errore strategico e distrazione perdente. In Untitled invece è la regola numero uno.
“Era splendido fermare le persone e dire loro -ciao voglio filmare la tua casa perché mi piace o -ciao posso stare a cena con voi perché penso sia meraviglioso? Non dover cercare profughi di guerra, criminali o poveri africani. Le persone ti guardano, ti chiedono cosa cerchi o cosa vuoi e tu semplicemente rispondi -non lo so, sono in viaggio e mi fermo dove mi sembra abbia senso. Ad esempio mi piace il tuo cane. Ti guardano ancora un po’ e poi quasi tutti scoppiano a ridere, con affetto, ti accolgono e sperano che tu sia felice di poter vedere ciò che loro semplicemente sono. Una sensazione bellissima.”
E quanto tempo vi fermavate?
“ A volte due giorni, a volte due ore, a volte una settimana. La maggior parte delle volte 3-4 giorni. In 4 mesi e mezzo siamo arrivati da Vienna a Harper in Liberia, dove Michael è morto e tutto si è fermato.”
Come è successo?
“E’ successo. Tutto così veloce, a volte non mi pare nemmeno vero. Due giorni e mezzo e Michael è scomparso. C’era solo un piccolo ospedale, gli hanno detto che aveva il tifo, invece era malaria cerebrale e in 48 ore è morto.”
Scomparso. C’è in tutti i testi del film, tratti dai diari che Glawogger scriveva per un blog austriaco, la continua sensazione che qualcosa stia per mancare o che sia ormai troppo tardi per provare a rimanere Che il mondo stia per finire, che qualcosa debba cambiare, ma non sai ancora se sia giusto o se è semplicemente meglio non pensarci, perché è da così tanto tempo che vivi.
“Scegli tu quello che vuoi. Io anche non lo so Non so se i testi oggi suonano così perché Michael è davvero scomparso. O se in qualche modo Michael avesse sentito che il centro del viaggio fosse quel lento scomparire. O quale altra spiegazione vuoi. La realtà è questa. Michael ha scritto ad Harper il testo in cui dice che Harper è forse il luogo del mondo in cui riuscire a scomparire, e poi due giorni dopo Michael è scomparso ad Harper. Perché? Non lo so. Preferisco non pensarci.”
E immaginare che il viaggio possa continuare?
“Ci abbiamo messo due anni a capire cosa volevamo fare dopo la scomparsa di Michael. Per un po’ avevamo pensato di continuare. Sapevamo che Michael voleva andare in Canada, in Alaska, in Giappone. Ma poi dove? E perché farlo senza il suo sguardo? Ci abbiamo rinunciato e abbiamo deciso di provare a restituire il senso di quanto ci aveva lasciato. Anche se credo sinceramente che sia impossibile. Ricordo bene che il senso del viaggio stava iniziando a comporsi quando Michael è scomparso. Chissà cosa ne sarebbe rimasto se avessimo potuto continuare.”
Così è rimasta forte la sensazione di un viaggio non finito che non può finire o di un viaggio finito che non sa finire. Un viaggio senza fine.
“Monika aveva già montato qualcosa durante i primi 4 mesi di viaggio e si era già confrontata con Michael a distanza. E’ ripartita da quello e ha deciso di usare i suoi diari.”
Con una voce femminile, però?
“Si perché sarebbe stato assurdo fingere una voce di Michael. Non aveva senso. E poi perché Michael aveva sempre sognato di usare una voce off femminile nei suoi film e non aveva mai trovato l’occasione giusta. Così penso Monika abbia voluto fargli un piccolo ultimo regalo.”
Un regalo che accompagna il mistero incompiuto del film, quella sensazione di sapere che tutto sta per finire e continui a non farlo finire. Di provare a nasconderti per lasciare che il mondo continui. Una sorta di sogno infinito del registra documentarista, rimanere a guardare senza essere visto e sperare che il mondo possa continuare a stupirti, a farti ancora un regalo.
“Michael voleva trovare un altro rapporto col mondo. Per tutti gli altri film lui faceva mesi e mesi di ricerca da solo, trovava il modo di entrare nei luoghi e nelle vite da raccontare e quando era tutto pronto ci chiamava (Attila era l’assistente di Wolfghang Thaer, l’operatore degli altri documentari di Glawogger). Arrivavamo e in due o tre settimana giravamo tutto, perché lui aveva preparato tutto. Questa volta non voleva preparare niente e capire cosa quell’incontro, potenzialmente infinito, potesse creare.”
E’ forse per questo che guardando l’ultimo film di Michale Glawogger si ha la continua sensazione che possa anche non finire mai.
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