domenica 16 ottobre 2022

New York Film Festival 2022: si è chiusa una 60a edizione ricca di cinema d'autore

Anche la sessantesima edizione del New York Film Festival (30 settembre-16 ottobre) è andata in archivio dopo aver registrato un notevole successo di pubblico. Come al solito la kermesse organizzata all’interno del prestigioso Lincoln Center nell’Upper West Side ha funzionato come “contenitore” di lungometraggi in larga parte presentati ad altri importanti festival internazionali, con l’aggiunta di alcuni titoli presentati in anteprima mondiale di cui parleremo più avanti. Ecco dunque i lungometraggi più importanti presentati al NYFF 2022, manifestazione che continua ad imporsi praticamente ogni anno come la più importante della Grande Mela

I film più importanti presentati alla 60a edizione del New York Film Festival 

  • Armagedon Time
  • Corsage
  • Decision to Leave
  • The Eternal Daughter
  • The Inspection
  • Master Gardener
  • Saint Omer
  • She Said
  • Stars at Noon
  • Tár
  • Till
  • Triangle of Sadness
  • Women Talking

Anteprime mondiali

Il primo film presentato in anteprima mondiale al New York Film Festival di quest’anno è stato Till, diretto da quella Chinonye Chukwu che tre anni fa si era fatta notare grazie a Clemency, che vedeva protagonista la sempre efficace Alfre Woodard. Il suo nuovo lungometraggio racconta l’orrendo episodio di linciaggio di cui fu vittima nel 1955 il quattordicenne Emmett Till, recatosi in Mississippi per passare qualche giorno con i cugini. Dramma che possiede molti momenti di indubbia intensità emotiva, Till è un film che tra le pieghe del passato riesce a raccontare anche molto del presente in cui vivono gli Stati Uniti, e del razzismo strisciante che ancora li divide. Mattatrice assoluta dell’operazione è una bravissima Danielle Deadwyler (Station Eleven su HBO Max) nel ruolo della coraggiosa Mamie, madre di Emmett. Un’attrice che il cui nome molto probabilmente (e meritatamente) verrà citato spesso durante l’imminente stagione dei premi.

Chiaramente meno efficace si è invece purtroppo rivelato She Said di Maria Schrader, altra anteprima mondiale del NYFF che racconta dell’indagine giornalistica condotta dal New York Times che portò alla luce i soprusi e i crimini sessuali di cui si è reso colpevole Harvey Weinstein. Eccessivamente virato in chiave melodrammatica, She Said non rende giustizia a una sceneggiatura pur discretamente calibrata con una messa in scena carica di inutili forzature volte a cercare l’empatia del pubblico. In questo modo anche un cast composto da Carey Mulligan, Zoe Kazan, Patricia Clarkson e André Braugher non riesce a esprimere il meglio costretto dentro ruoli che molto spesso appaiono stereotipati. She Said manca il bersaglio, risultando molto meno efficace di quanto ciò che racconta avrebbe meritato. 

Film già presentati al Festival di Venezia 

Il New York Film Festival ha come sempre fatto man bassa dei lungometraggi entrati nelle varie sezioni della Mostra del Cinema di Venezia. Per cause di forza maggiore non siamo purtroppo riusciti a vedere il vincitore del Leone d’Oro, il documentario All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, né il Leone d’Argento alla regia Bones and All di Luca Guadagnino. Ci ha invece pienamente convinto il Gran Premio della Giuria Saint Omer, diretto dall’esordiente Alice Diop. Dramma tutto al femminile che racconta con precisione psicologica e partecipazione il retaggio sociale e umano della protagonista, incastrata tra un passato doloroso e un futuro incerto.

Vincitore della Coppa Volpi per la miglior attrice andata a Cate Blanchett, Tár di Todd Field è un lungometraggio che perde purtroppo nel finale tutto quanto costruito per almeno due terzi di narrazione con precisione e rigore formale. Il discorso sul potere, sui compromessi, sulla ricerca di ispirazione e la devozione all’arte che questo lungometraggio propone sono molto interessanti e perfetti per il dibattito odierno, ma l’autore sceglie di sviluppare in chiusirae una parabola “morale” - termine improprio ma necessario in mancanza di altri - che conduce la protagonista in un territorio confuso, retorico se non addirittura stereotipato. Peccato davvero.

Riuscito a metà anche The Eternal Daughter di Joanna Hogg, una sorta di ghost-story che vede ottima protagonista Tilda Swinton in un doppio ruolo di madre-figlia. L'albergo in campagna che si fa ambientazione unica del film viene sfruttato magnificamente dalla regia, capace di costruire un’atmosfera sospesa, elegante e a tratti tesa. Peccato  che la messa in scena si poggi su una trama fin troppo semplice e prevedibile. E paradossalmente la Swinton risulta molto più credibile nella parte della donna anziana che in quella della figlia.

Il miglior film visti a questo New York Film Festival è invece Master Gardener di Paul Schrader, presentato a Venezia fuori concorso. Ennesima parabola sulla redenzione che viene cercata nei posti e nelle persone più vicine alla dannazione, il film che vede protagonisti Joel Edgerton e Sigourney Weaver possiede una prima parte perfetta, stilizzata e dolorosa. Quando poi la vicenda si dipana in tutta la sua forza propositiva oltre che capace di rendere salutare la controversia, The Master Gardener assume una valenza simbolica di ambiguo fascino. Uno dei film migliori di Schrader, che dopo First Reformed e The Card Counter dimostra di aver ritrovato in pieno la sua grande vena creativa.

Film già presentati a Cannes

Il vincitore della Palma d’Oro Triangle of Sadness possiede a nostro avviso troppi alti e bassi per poter essere considerato completamente riuscito, troppi ribaltamenti di ritmo e discontinuità nella storia e nei personaggi. Dopo un inizio folgorante, la parte centrale ambientata nello yacht di lusso si fa già ondivaga (in tutti i sensi…), per concludersi nella classica isola deserta che rappresenta la parte più debole del film di Ruben Östlund. Molti spunti sono interessanti, alcuni spasossi, ma rispetto a Forza maggiore e The Square siamo un passo indietro, anche deciso.

Sorprendente invece la sincerità e l’acume con cui James Grey ha parlato della “sua” infanzia in Armageddon Time, racconto di formazione ambientato a inizio anni ‘80 che vede protagonista un bambino alle prese col razzismo strisciante ma corrosivo della società piccolo-borghese di New York. Un tono intimo e malinconico - dato anche dalla fotografia precisa del grande Darius Khondji - si presta ad elevare il lato drammatico della storia e le prove maiuscole di Anne Hathaway, Jeremy Strong e Anthony Hopkins. Un film che sussurra tematiche profonde e dolorose, e lo fa in maniera davvero ammirevole. 

Chi non va mai troppo per il sottile è come sempre Park Chan-wook, vincitore del Premio per la Regia a Cannes con Decision to Leave, storia di un detective di polizia che rimane irretito dal fascino di una giovane donna che ritiene colpevole dell’assassinio del marito. Trovate di storia e una regia ispirata quanto iperbolica rendono la prima parte del film un otto volante cinematografico di notevole impatto. Nella seconda metà si assiste invece a uno scivolamento dalla commedia dell’assurdo verso il melodramma che rimane però coerente, arrivando a un finale di impatto emotivo. Ottimo ritorno dell’autore coreano ad alti livelli.

Squilibrato, straripante ma capace di irretire lo spettatore si è rivelato anche il Gran Premio della Giuria Stars at Noon di Claire Denis, sorta di thriller politico ambientato nella Nicaragua dagli anni '80 da cui una giovane giornalista americana non riesce a fuggire dopo aver denunciato in un articolo la corruzione e la violenza del governo vigente. Ad aiutarla l’arrivo di un misterioso uomo d’affari inglese, il quale si ritrova coinvolto in una caccia all’uomo che metterà a repentaglio la vita di entrambi. Tratto dal romanzo di Denis Johnson, Stars at Noon si aggrappa ai volti e ai corpi dei due protagonisti Margaret Qualley e Joe Alwyn: la prima è aggressiva, energetica, molto fisica. L’attore invece rimane sempre troppo passivo. Poco importa, perché il film pur diventando a tratti estenuante possiede una sua vitalità selvaggia e immediata, simile a quella del precedente e altrettanto riuscito High Life della Denis.

Piuttosto dimenticabile invece Corsage con Vicky Krieps, rivisitazione aggiornata della figura della Principessa d’Austria Elisabeth - la Sissi resa famosa al cinema da Romy Schneider - in un film confuso, ostentato nell'esposizione della propria idea, alla fine piuttosto fastidioso. Capiamo l’intento, ma realizzarlo in maniera coerente ed equilibrata non è qualcosa che appartiene al progetto di Marie Kreutzer.  

Film già presentati al Toronto Film Festival 

Da quanto è passata dietro la macchina da presa Sarah Polley si è immediatamente imposta come una delle autrici più sensibili e ispirate dei nostri tempi. C’era dunque molta attesa per il suo nuovo Women Talking, adattamento cinematografico del romanzo velatamente autobiografico di Miriam Toews, coautrice della sceneggiatura insieme alla stessa regista. Il racconto vede protagoniste un gruppo di donne appartenenti a un gruppo religioso che si riuniscono in un fienile per decidere se partire o rimanere e combattere dopo una serie di attacchi violenti da loro subiti. Women Talking è purtroppo un’operazione in cui il messaggio e la metafora vengono troppo spesso anteposte allo sviluppo della storia e dei personaggi, soffocandone la verità. La scelta poi di un’ambientazione neutra e stilizzata, mezzo per rendere il film ancora più universale, rende Women Talking fin troppo sospeso. Per molta della sua durata ci si chiede s e si tratti di un film storico oppure di uno sci-fi ambientato in un futuro distopico alla maniera di The Handmaid’s Tale. Molti momenti, molte frasi sembrano appartenere più a un pamphlet divulgativo che a figure femminili tangibili. La Polley si dimostra comunque ottima regista di attrici, contribuendo alle prove maiuscole del cast, in particolar modo Jessie Buckley, Ben Whishaw e soprattutto Claire Foy. Nel complesso però Women Talking soffre di un disequilibrio evidente tra metafora e contesto.

Anch’esso impregnato da una discreta dose di retorica ma fondamentalmente riuscito si é rivelato poi The Inspection, storia (vera) di un giovane omosessuale di colore che decide di sfidare le convenzioni ed entrare nel corpo dei marines. Elegance Bratton ha diretto questo melodramma puntando tutto o quasi sull’efficacia del protagonista Jeremy Pope e dei comprimari Gabrielle Union e Bokeem Woodbine. Il film fin dalle prime scene possiede una sua fisionomia precisa e coinvolgente, mostrando sia il lato umano che quello più radicale della vita militare. Molti argomenti avrebbero potuto essere maggiormente sfumati, ma nel complesso The Inspection sa come arrivare al cuore dello spettatore. 



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