sabato 15 ottobre 2022

Houria: recensione del film in concorso alla Festa del Cinema di Roma

A un certo punto, in Houria, in un punto un po’ avanzato della storia, la protagonista omonima, ballerina che ha dovuto rinunciare ai suoi sogni dopo un’aggressione, compone una coreografia i cui movimenti sono basati sul linguaggio dei segni e raccontano, quindi, una storia.
Ecco, Houria funziona così. Esattamente così. Racconta dei movimenti, delle azioni, degli accadimenti che raccontano una storia (tante storie) senza bisogno di usare tante parole inutili e ridondanti. Usando il cinema, ovvero la macchina da presa, i suoi movimenti, le scelte d’inquadratura, i suoi movimenti. Le immagini in movimento.
E di certo non è perché la protagonista da quell’aggressione è uscita con una caviglia in pezzi, ma anche con uno choc che la tolto la parola: è perché Mounia Meddour crede nel cinema.

Tante storie, si diceva.
Certo, la più importante è quella di Houria, interpretata dalla brava Lyna Khoudri, quella che con la regista ha girato Non conosci Papicha e che Wes Anderson ha voluto in The French Dispatch. Houria, una vita spezzata e la necessità di ricomporla, per cominciarne un’altra, assieme alla madre, all’amica del cuore che sogna di lasciare l’Algeria per la Spagna, a nuove amiche senza parola come lei conosciute in riabilitazione e conquistate con la gentilezza e col ballo.
Ma intrecciate in quella di Houria c’è la storia di un paese, l’Algeria più o meno contemporanea, che ugualmente deve fare i conti con le cicatrici del passato, con le ferite ancora aperte, con le sue tante contraddizioni. Quelle della Guerra Civile, dell’amnistia ai terroristi, delle proteste per la democrazia degli anni recenti.

Nel parlare con azioni e immagini di tutto questo, nel raccontare le storie di una ragazza, di un paese, di una solidarietà femminile fortissima e di una femminilità vitale e caparbia, Houria fa qualcosa che non era facile fare: evita ogni sottolineatura superflua, figuriamoci poi fare ricorso alla retorica. E la sua energia, la sua vitalità, catturano. Così che, quando subito dopo l’aggressione si teme che il film possa aver preso una china troppo patetica e vittimista, si fa a tempo a ricredersi, e a consatatare che quello era stato solo un beat di pausa, rallentamento e riflessione, perché il ballo di personaggi e vicende potesse riprendere più forte e convincente di prima.



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