venerdì 14 ottobre 2022

Il cerchio mi commuove, ma non perché sono di parte: appunti sul documentario di Sophie Chiarello

Mi autodenuncio. Ho un potenziale conflitto d’interesse. Evidente.
Perché la realtà raccontata da Il cerchio la conosco bene, e da vicino, così come conosco la sua autrice, Sophie Chiarello. Perché le mie figlie vanno o sono andate in quella scuola romana lì che è raccontata nel film, anche se non nella stessa classe dei bambini che appaiono sullo schermo. Bambini che non conosco direttamente ma che ho visto o incrociato, e che fanno parte di un mondo scolastico che, perlomeno a Roma, ha forse pochi eguali in quanto alla capacità di essere comunità.
Sono di parte, insomma.
E però. E però posso garantire che non è stato perché di parte che a guardare Il cerchio mi sono commosso in più punti. Anzi. La mia consapevolezza dell’essere di parte, o parte in causa, sebbene indirettamente, mi aveva semmai fatto iniziare la visione film con una sorta di eccessiva rigidità interiore, forse perfino con un pelo di puntiglioso pregiudizio negativo.
E invece.

Se mi sono commosso, e se comunque penso che Il cerchio sia un film bello (direi quasi importante, se questa parola non venisse abusata e svilita dal linguaggio critico corrente), è perché, penso, quello che il film racconta, ovvero l’infanzia, e come l’infanzia vede sé stessa, e il resto del mondo, e i problemi del mondo, quelli grandi e quelli piccoli, e soprattutto il mondo adulto, in tutte le sue mille contraddizioni, lo racconta in un modo così semplice e chiaro, e diretto, e mai costruito o filtrato, che è impossibile per chiunque non riconoscere qualcosa di intimo e familiare.
Lì dentro, dentro quello che Il cerchio racconta, ci siamo noi, i nostri figli, i nostri nipoti, i figli di qualche amico, i bambini e gli adulti e il mondo che conosciamo. Tutti, in qualsiasi scuola italiana.
Quelli ripresi in maniera così diretta e priva di giudizio da Chiarello, invisibile allo spettatore e allo stesso tempo così intimamente parte, silenziosa e osservante (per cinque anni: a là Boyhood) del cerchio di quella classe, sono i bambini. Quelli di sempre, quelli di oggi. In tutte le loro mille sfumature, nelle asperità, nelle timidezze e negli entusiasmi, nelle simpatie contagiose e, non c’è da essere ipocriti, nelle loro manifestazioni più fastidiose e respingenti. E in quei bambini, lo specchio di quello che siamo noi adulti. Nel bene e nel male.

Ci sono momenti in cui, lo ammetto, ho pensato con un filo di preoccupazione a che generazione strana, sebbene anche meravigliosa, stiamo crescendo. Così diversa e, in apparenza, così più complicata della mia.
E in altri mi sono vergognato, rivedendo nei racconti altrui, vizi piccoli e grandi del mio ménage familiare. Lo specchio del Cerchio non è sempre gratificante, o positivo, o commovente. Racconta quel che è, quel che siamo, anche quel che di noi non ci piace, o ci piace pensare non esista. Penso sia un grande merito.
Uno dei tanti di un film piccolo eppure molto grande, figlio di un impegno sincero e appassionato, financo felicemente modesto nelle sue evidenti e quinquennali ambizioni.
Non lo dico perché sono di parte. Anzi.
Dirlo, proprio perché in quel bene e in quel male ci sguazzo ancora, è uno sforzo di sincerità che mi costa, ma che vale il prezzo che richiede.



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