Come scriveva il buon Roger Ebert nel 2011, a una prima e superficiale analisi Ombre rosse può sembrare un'opera poco originale, un condensato di cliché legati alle storie della frontiera americana: gli indiani che attaccano l'uomo bianco, una prostituta dal cuore d'oro, una donna che inaspettatamente partorisce, un dottore che grida: "Fate bollire dell’acqua!", un bellimbusto fuggito di prigione in cerca di giusta vendetta. E invece, il film che segna il primo "sodalizio" artistico fra John Ford e la Monument Valley è il western per eccellenza, anzi il primo western moderno in un certo senso, anche se l'illustre critico André Bazin volle definirlo l'ultimo baluardo di un certo classicismo cinematografico hollywoodiano. Moderno, anzi rivoluzionario, lo considerò, per esempio, Orson Welles, che, preparandosi per Quarto potere, lo guardò 40 volte, prendendo in prestito il suo montaggio snello e quella profondità di campo che è arrivata fino a Roma di Alfonso Cuarón. E anche Clint Eastwood non si è mai dimenticato la sua lezione, né di quando, da bambino, seduto in una sala con il mento sulle ginocchia rannicchiate, si lasciava emozionare dalla disavventura dei nove compagni di viaggio per caso. Quei personaggi e le loro dinamiche hanno guidato il cavaliere pallido ne Gli spietati, insieme all'idea di sfruttare il genere per parlare di altro.
Uscito nel fondamentale 1939 (l'anno di Via col vento, La taverna della Giamaica, Donne, Il mago di Oz e Mr. Smith va a Washington) il film forse più bello del regista nato nel Maine da famiglia irlandese sembra qualcosa di già visto solo perché è stato continuamente citato, omaggiato e copiato, e se, dopo pochi minuti di visione, vi viene subito in mente la serie tv Westworld, è perché quel racconto e quegli scenari erano epici come niente mai, e quindi perfetti per essere riproposti in un parco a tema per soli ricchi annoiati dal banale vivere quotidiano.
La cronaca del viaggio da Tonto a Lordsburg, nel 1880, di una diligenza minacciata dalla "banda" di Geronimo dà l'avvio al mito di John Wayne, al secolo Marion Michael Morrison. L'attore, all'epoca, aveva già partecipato a moltissimi film, ma erano sostanzialmente b-movie. Ford, che lo conosceva, lo scelse dopo aver fatto con lui una gita in barca e, com'è noto, le loro strade si incrociarono diverse altre volte. Eppure l'attore non dimenticò mai quel set dove l'uomo dalla benda sull’occhio lo aveva chiamato spesso "grosso babbeo" e "stupido bastardo", tanto che decise di portarsi dietro il cappello da cowboy per utilizzarlo in molti western successivi. Il prode John aveva 31 anni quando impersonò il fuorilegge Ringo, ed era magro e sorridente, e colui che lo diresse cercò di non renderlo un action-hero ma una tipologia di eroe molto particolare: un uomo buono, dolce, capace di esprimere quella tenerezza che più tardi avrebbe in parte caratterizzato il protagonista di Un uomo tranquillo. Wayne non appare subito in Ombre rosse, ma quando appare, con uno zoom leggendario, diventa immediatamente leggenda (e pensare che la produzione voleva Gary Cooper!). Le inquadrature del film, però, non sono tutte per lui, come succederebbe oggi. Il suo personaggio non toglie mai spazio agli altri. Ciascun viaggiatore ha una scena chiave e, anzi, il perno del racconto è Dallas, Maria Maddalena in versione bionda osteggiata dalle brutte e antipatiche donne della Lega della Moralità.
A proposito di Dallas (Claire Trevor) bisogna riconoscere a John Ford il merito di aver condannato, attraverso il suo personaggio e attraverso il dottore ubriacone Josiah Boone, il pregiudizio e le discriminazioni. Che ciò abbia a che vedere con il profondo senso di giustizia proverbialmente associato agli irlandesi, poco importa. Quel che ci preme sottolineare è il desiderio, da parte del regista e dello sceneggiatore Dudley Nichols, di offrire una redenzione a chi, nel film, ha deviato dalla retta via, di celebrare la lealtà e la carità, di invitare all'uguaglianza e di insistere sulla capacità di compattarsi di un gruppo eterogeneo minacciato da un pericolo esterno. Quel gruppo, nel quale gli outsider trionfano sull'ipocrisia del perbenismo, altro non è se non l'America stessa, e il viaggio di Hatfield, Buck, di Lucia Mallory & Co. in fondo è il cammino che l'umanità dovrebbe compiere in direzione della civiltà. Anche in questo Ombre rosse è un western imprescindibile.
Ma Ombre rosse è soltanto un western? Certo che no. Pur essendo, come già detto, il western per eccellenza, accoglie in sé diverse altre suggestioni. C'è chi ama definirlo, a ragione, "un dramma da camera on the road" e chi "un esempio classico di opera in cui convivono introspezione psicologica e azione allo stato puro". L'introspezione psicologica c'è senz'altro, perché ogni personaggio ha la sua tridimensionalità (apache esclusi, ma ci torneremo) e, in più, determina la messa in scena e le scelte di regia. Ford, che nella distribuzione dei posti nella diligenza ha tenuto conto dei rapporti fra i magnifici 9, non pecca di autocompiacimento con sequenze non necessarie e movimenti di macchina virtuosistici, e se, quando gira in interno, riprende anche i soffitti, è per aumentare il senso di claustrofobia che pervade i viaggiatori. Come fa notare un critico autorevole, l'alternanza di primi piani e campi lunghi esprime la dialettica fra l'individuo e la società (o anche la natura selvaggia). A dialogare sono infine realismo e romanticismo, eroismo ed umorismo.
Ombre rosse prende spunto da un racconto di Ernest Hycox intitolato "La diligenza per Lordsburg" di cui Ford acquistò subito i diritti. In più di un'intervista il regista ha detto di essersi ispirato anche al racconto di Maupassant "Palla di sego", ma non è detto che lo sceneggiatore Dudley Nichols né tantomeno Hycox avessero fatto lo stesso. Con le idee chiare su come andare avanti con il progetto, John Ford bussò alla porta di diversi Studios, trovando dapprima un sostenitore nel produttore David O. Selznick, che poi fece marcia indietro. Nemmeno con l'indipendente Walter Wanger le cose andarono bene (era lui a volere Gary Cooper, e in più Marlene Dietrich per il ruolo di Dallas), ma alla fine l'uomo si convinse a sborsare parte del budget. Le riprese non furono semplici, viste le impervie location e il caratteraccio del regista, che se la prendeva soprattutto con Andy Devine chiamandolo "palla di lardo". Alla fine, però, il film fu realizzato e si presentò agli Oscar con 7 candidature. Di Academy Awards ne vinse solamente 2: quello per la miglior colonna sonora e quello per il miglior attore non protagonista (andato a Thomas Mitchell alias il dottor Boone). La performance di quest'ultimo è fra le nostre preferite, anche se ogni attore è sorprendente: John Carradine nella parte dell’ambiguo giocatore Hatfield, Donald Meek nei panni del timido e pauroso venditore di alcolici Peacock, George Bancroft nel ruolo dello sceriffo Wilcox, Berton Churchill nelle vesti del banchiere ladro Gatewood, Louise Platt come Lucia Mallory, oltre ai già citati Wayne, Trevor e Devine.
Una delle sequenze più avvincenti di Ombre rosse è l'assalto della diligenza da parte degli indiani. Sappiamo che per girarla John Ford usò una macchina che andava a 60 km all'ora e sfruttò le abilità fisiche del capo stuntman Yakima Canutt, che passava di cavallo in cavallo per poi finire a terra, rischiando di essere calpestato. Per la scena vennero ingaggiati e pagati circa 200 nativi americani, che per questo furono grati al regista, che tra l'altro divenne membro onorario della tribù dei Navajo. Eppure Ford fu aspramente criticato per il modo in cui rappresentò gli apache. Secondo alcuni, li raccontò come fossero selvaggi e non si soffermò su nessuno di loro. Dalle accuse di razzismo, il nostro si difese con la seguente dichiarazione: "Gli indiani mi sono molto cari, c'è del vero nell'accusa che l'indiano non è stato ritratto con giustizia nel western, ma l'accusa è stata falsamente generalizzata. L'indiano non amava l'uomo bianco e non era per niente diplomatico. Eravamo nemici e ci combattevamo".
Sono trascorsi 80 anni dall'uscita USA di Ombre rosse. Da quel lontano e glorioso giorno ne è passato di tempo, e ne sono passati di western, e fra i contemporanei ce ne sono di davvero belli: da Gli spietati ad Appaloosa, da The Missing a L'assassinio di Jessie James per mano del codardo Robert Ford, senza dimenticare Dead Man e Stella solitaria. Ma il film di John Ford mantiene inalterato il suo fascino. Speriamo di averlo celebrato degnamente con questo lungo articolo, e di avervi invogliato a rivederlo o ad abbracciarlo per la prima volta.
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