No, non basta riesumare certo cinema italiano popolare degli anni '70, poco autoriale in quanto a profondità di tematiche e impegno socio-politico, e anche un po' sanamente burino per quel suo tentativo di imitazione dei diversi generi cinematografici (l'horror, il thriller, l'avventura, meglio se spruzzati di pruriginoso erotismo) con cui riuscire ad attrarre in sala gli spettatori non ancora irretiti dagli affollati palinsesti televisivi degli anni a venire, per confezionare, a XXI secolo già ampiamente inoltrato, un prodotto convincente e credibile per rilanciare una cinematografia da anni languente e ferita a morte i cui fragili destini sono affidati a rari e singoli ‘autori', e incapace di reincarnarsi in un corpus di professionisti (una volta si diceva ‘mestieranti') in grado di realizzare film ‘normali', ma solidi e inattaccabili sotto il profilo dello spettacolo e dell'intrattenimento. Per quanto vada con rispetto e simpatia lodato l'indubbio sforzo produttivo di Matteo Rovere e della sua crew, riesce tuttavia difficile unirsi al coro pressoché unanime di consensi (ma in odore di campanilistico protezionismo) che ha accolto Il Primo Re alla proiezione stampa di qualche giorno fa. Si diceva del cinema degli anni '70, e il primo titolo che salta in mente, nel corso della cruenta, e a tratti faticosa visione, è quel Noa Noa (1974) di Ugo Liberatore, dove gli ammutinati del Bounty fondavano una nuova comunità sociale prima mescolandosi agli indigeni di un'isola esotica dei Mari del Sud, imponendovisi in seguito come dominatori. Tutto si concludeva in una terrificante carneficina. Altri hanno legittimamente rintracciato nella fotografia firmata da Daniele Ciprì echi di Malick (The New World) o del Refn di Valhalla Rising, ma converrà senza troppi giri di parole riportare i piedi per terra e richiamare piuttosto l'attenzione su quell'aria da ‘Vorrei ma non posso' che aleggia per tutto il film. No, infatti: non basta scegliere di raccontare una leggenda avvolta nel mito secolare come quella della fondazione di Roma, non basta impegnarsi in una pur lodevole ricostruzione filologica e fedele di ambienti e linguaggi: la produzione de Il Primo Re ha coinvolto archeologi e studiosi che hanno minuziosamente ricreato i villaggi di capanne delle tribù laziali dell'VIII secolo prima di Cristo, e reinventato un ideale ‘protolatino' puntualmente sottotitolato in italiano per il pubblico di pronipotini che a scuola il latino nemmeno lo studiano più. Non basta, perché al cinema serve soltanto una cosa per stare in piedi anche da solo: il cinema. Non che non ce ne sia, in questo esito raggiunto con notevole sforzo da Matteo Rovere (ci ha lavorato sopra tre anni), ma è un cinema che non riesce ad elevarsi al di sopra della materia del racconto e a darle vita bagnandola di quanto serve per imprimerle la forza evocativa e il mistero di un mito perduto nella memoria dei secoli. Nessuno pretende l'enfasi dei ‘Peplum' degli anni '50 e '60, che gli Americani venivano a girare qui da noi, sulle rive del Tevere (Steve Reeves e Gordon Scott furono già Romolo e Remo nell'omonimo film diretto da Sergio Corbucci, con Virna Lisi e Massimo Girotti); e saggio è stato prendere le distanze da ogni eventuale e stucchevole retorica de ‘Il Gladiatore' e di tutti i prodotti cinetelevisivi che ne sono infaustamente conseguiti. Ma a questo asciugare il racconto, e immergerlo nell'umida zaffa del fango e della boscaglia ai bordi del Tevere, a questo abbondare di dettagliata macelleria corporale nella descrizione dei violenti combattimenti corpo a corpo, non corrisponde un'idea di rappresentazione intuibile con chiarezza: alla base di un film con delle ambizioni alte e oneste come questo, ci deve sempre essere una progettualità che contenga un'idea visiva, o comunque ‘fisica' da imprimere alle immagini in movimento che ne illustrano e raccontano l'argomento. Il Primo Re – come ormai tutti sanno, un film su quanto avvenne nei primi mesi del 753 a.C. prima della fondazione di Roma, e sul sanguinario destino che legò i due leggendari gemelli Remo e Romolo – brancola invece, dopo la promessa iniziale di una tensione spettacolare poi non più adeguatamente sorretta da una scrittura cinematografica convincente, in quella che è la peggior nemica di qualunque artificio che pretenda di raccontare una ‘storia': la noia. Non basta cadenzare la rappresentazione con feroci e virulente brutalità e abbondante spargimento di succo di pomodoro per restituire il senso fisico, come si diceva, della ferinità di corpi umani ancora ridotti al rango di creature bestiali sottomesse al dominio e al capriccio degli agenti naturali. Al cinema ci vuole un occhio che guardi e, come il pittore con il pennello, o il musicista con le pause di silenzio, sia capace di sollevare un vento, creare uno spostamento d'aria che dia l'illusione di esser lì e subire l'urto dei gesti, delle parole, delle emozioni dei personaggi, di condividerne ansie, paura, esaltazione; un occhio attento a investire ogni elemento solido presente nell'inquadratura del necessario carisma estetico perché la rappresentazione ne risulti efficace e convinta. Tutto questo non accade quasi mai, ne Il Primo Re. La monocordia di toni scelta da Rovere non aiuta ad appassionarsi al dramma dei due fratelli, alla passionalità pratica e laica di Remo (che ha il volto e il corpo di Alessandro Borghi, ed è in realtà l'autentico protagonista), alla sofferenza fisica e alla maggiore spiritualità di suo fratello Romolo, caratterialmente più passivo e pavido degli dèi (lo interpreta Alessio Lapice); la tanto elogiata fotografia di Ciprì non riesce a conferire a rocce, prati e foreste la statura epica che richiederebbero i fondali, teatro degli eventi illustrati; la primitività, la tribalità, l'angoscia religiosa, vengono insomma soltanto mostrarti, e non trovano la giusta tonalità per risuonare e risplendere come elementi adeguati al dramma. E al cinema – è questo il peggior difetto, cresciuto come una radice mortifera e ormai attecchito come ortica inestirpabile, del cinema italiano di questo secolo che non si è capito se sia ancora nuovo o già vecchio – non basta mostrare: il cinema deve incantare, affabulare, sedurre, imbrogliare, illudere; solo così otterrà l'effetto di risultare veritiero, autentico, credibile. Né giovano allo scopo finale alcune opzioni di regia come l'incerto e disordinato uso dei droni nella ripresa dei combattimenti, non sempre coreografati con chiarezza e leggibilità, Tutto questo, e se ne accorgerà il pubblico probabile responsabile di un passaparola che potrebbe seriamente compromettere l'esito commerciale del film, con Il Primo Re non si verifica mai, neppure per un istante. Dispiace constatarlo, beninteso, perché la lunga e complessa preparazione che ha coinvolto dai semiologi latinisti ai tecnici degli effetti speciali, le estenuanti riprese en plein air e l'indubbia devozione dimostrata dall'intero cast, avrebbero meritato un risultato cinematograficamente più attento agli aspetti epici e arcaici della leggenda dei due figli della Lupa.
(Il Primo Re); Regia: Matteo Rovere; sceneggiatura: Filippo Gravino, Francesca Manieri, Matteo Rovere; fotografia: Daniele Ciprì; montaggio: Gianni Vezzosi; musica: Andrea Farri; interpreti: Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Tania Garribba; produzione: Groenlandia, Gapbusters, Rai Cinema, VOO, BeTV; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Belgio 2019; durata: 127'
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