sabato 16 luglio 2022

Barbara Ronchi e il pudore dei sentimenti a Cinema Tavolara

Ha iniziato con il cinema da non molti anni. Tanti sono bastati per farsi notare, dopo importanti esperienze a teatro, in personaggi sempre più centrali e riusciti. Barbara Ronchi è una interprete capace di annullarsi nel proprio personaggio, senza perdere in credibilità. Che sia in ruoli ironici come nel televisivo Imma Tataranni o intensi come in Padrenostro o Settembre, la convincente opera prima di Giulia Steigerwalt che ha presentato in coppia con Thony a Cinema Tavolara 2022.

Sarà la confortante eccentricità di un festival in cui ci è capitato di vedere con frequenza persone che abdicavano con sprezzante naturalezza alla dittatura del selfie, chiedendo (addirittura) a qualcuno di scattargli una foto con attori o registi, ma l’intervista a Barbara Ronch è diventata più una chiacchierata informale. Ci scuserete per questa invasione di campo e per l’abuso di colloquialità.

Come mai dopo anni come archeologa hai cominciato a fare l’attrice?

Ho sempre fatto laboratori di teatro, fin dalle elementari. È una cosa che crescendo mi ha sempre accompagnato. Non facevo sport come gli altri, ma teatro. Per me era normale, un doposcuola. Poi sono diventata più grande e mi è sembrato naturale fare un percorso di studi. Mi piaceva, e mi piace tuttora la storia. L’arte più pratica fra quelle storiche era l’archeologia. Scavamo, sono stata  in missione per quattro mesi in Brasile, poi in Grecia, a Ostia. È stato molto bello, ma a un certo punto ho sentito che quel percorso accademico si era esaurito. Contestualmente continuavo con degli amici a fare degli spettacoli in cui facevamo tutto noi, scrivevamo i testi, costruivamo le scenografie. Vennero per caso degli insegnanti dell’Accademia, amici di amici, e mi hanno chiesto se volevo fare l’attrice. Ci avevo sempre pensato, ma mi sembrava un esercizio di vanità, poterlo fare nella realtà, ma anche solo dirlo. 

Non mi stupisce sentirti dire questo, alla luce dell’attrice che sei, con un approccio sempre un po’ schivo, che mette in primo piano sempre e solo il personaggio. Una cosa che aiuta a cambiare molto da ruolo a ruolo.

Non è una cosa che faccio volontariamente, diversificare per mettere in mostra il mio ventaglio di possibilità.

Vedi, ancora la paura della vanità.

La vanità mi fa tanto paura. Basta un attimo per farti apparire in cerca di esibizione di quanto sei bella, brava, versatile. Vorrei non fosse un’arte dimostrativa. Ognuno ha il proprio percorso, la mia ricerca mi porta a nascondermi nei personaggi, ma non perché sia timida. Vado in cerca di qualcosa che sia vicino a me, ma allo stesso tempo lontano. Poi entro in una sorta di trance, non mi faccio più domande, me la vivo sulla scena.

Se l’archeologia e la recitazione hanno qualcosa in comune è la curiosità che le guida: scoprire dei reperti antichi, qualcosa di concreto, in un caso, oppure delle persone, nell’altro.

Sono sempre stata una studiosa. Il percorso accademico mi ha dato gli strumenti per studiare. Sono appassionata di fonti storiche, iconografiche. Quando comincio un lavoro colgo l’occasione per studiare quello che non so, anche se per il mio personaggio poi non mi serve. Creo del materiale su cui mi posso appoggiare. La parte di preparazione forse ha a che fare con la mia formazione. Anche per la mia tesi, la mia ricerca delle fonti iconografiche è stata la cosa più importante.

Negli ultimi anni il successo che stai avendo ti ha permesso di scegliere più liberamente cosa fare e quindi anche cosa studiare?

Sono in un momento della mia vita e della mia carriera in cui comincio a farmi delle domande di questo tipo: dove voglio andare, cosa voglio fare, cosa mi piacerebbe che arrivasse sulla mia strada? Poi non è detto che tutto arrivi, ma fortunatamente qualcosa inizia a muoversi, per cui forse posso rispondere a questa domanda. Ho detto dei no, e i sì che ho detto e dirò in futuro saranno solo motivati da quello che mi smuove, dalla mia ricerca. Non per approfondire degli aspetti storici, ma qualcosa che non conosco di me, del mio essere attrice, delle storie che voglio raccontare e di come voglio farlo.

Vuoi uscire dalla celeberrima comfort zone?

A me piace, la comfort zone. Non voglio mettermi a rischio, sempre perché non voglio dimostrare niente. Vorrei evitare la sensazione che faccio delle cose per dimostrare di essere versatile. Voglio che il percorso che faccio sia mio. 

Per un’attrice il teatro regala una risposta immediata del pubblico, che contribuisce a creare l’energia, invece nel cinema la risposta è differita. Ci vuole applicazione maggiore?

È un falso mito. Il cinema sembra che non abbia pubblico, ma ce l’ha. È la troupe, che è brutale. Quando l’operatore di macchina mi dice che una scena è bellissima, o anche solo ‘brava’, per me è come se fossero cento persone che applaudono a teatro. Quando il regista che stimo e di cui mi fido mi dice ‘ottimo’, sento la stessa adrenalina suscitata dalle risate per una mia battuta a teatro. Quello che il cinema richiede di più del teatro, e lo sto capendo piano piano, è una concentrazione durante. A teatro ti lanci in un flusso, se sbagli vai avanti, dall’errore può nascere qualcosa di interessante. Una dinamica che può salvare l’attore, perché pensi di poterla rifare cento volte fino ad arrivare alla perfezione. Al cinema provo questo tipo di approccio “teatrale”, arrivando fino alla fine anche se sbaglio, non arrivo al segno o non ho la luce giusta all’inizio. Cerco di ricreare qualcosa che sia più possibile prossimo al flusso di coscienza. Ma il pubblico è lì con te tutti i giorni: è la troupe, che oltretutto, al contrario degli spettatori a teatro, non sceglie di stare lì. A volte accade una magia e diventa pubblico e vuoi far bene anche per loro. Non puoi dimenticarli del tutto: c’è qualcuno dietro la macchina che ti guarda, e non è il regista. Sono l’operatore, o il fuochista. 

La tua carriera è in qualche modo incorniciata dalla collaborazione con Marco Bellocchio. In questi giorni stai girando La conversione, mentre il primo ruolo importante è stato nel 2016 in Fai bei sogni. Cosa ti ricordi di quella esperienza, immagino molto importante per te?

Non era il primo film, ma ha rappresentato l’incontro con il cinema. La prima volta che qualcuno mi ha mostrato una visione autoriale e instradato a una sorta di pudore dei sentimenti. Bellocchio non mi chiedeva, ancora una volta, di dimostrare o di stupire. Mi chiedeva, anzi, di tenermi delle cose per me. Perché lui le vedeva, quindi c’erano. Non dovevo fare di più che vivere la sincerità di quel momento. Non dovevo urlare o piangere solo perché sapevo farlo. Con lui non c’erano scene madri. Questo mi ha permesso di entrare in quel personaggio facendolo vivere.

Che attrice pensi di essere, a distanza di alcuni anni, oggi che torni a lavorare con Bellocchio?

Penso di essere semplicemente più grande. Ho una specie di autonomia adesso, prendo le indicazioni che mi vengono date, ma le filtro con una mia visione. Sento di essere anche io autrice di quello che faccio, provo a rimodellare le cose in base a quello che so di poter dare. 

Hai fatto spesso ruoli di madre, lo sei anche nella vita.

In Fai bei sogni ero una mamma piuttosto giovane, che riviveva nei sogni di un bambino, storpiandone anche l’immagine, ricordandola migliore di quella che era. Mi capita spesso di fare film con dei bambini. A volte sono madre, altre non lo sono, come in Mondocane, in cui avevo comunque un rapporto con una ragazzina. Non so dire il motivo, vedranno qualcosa di materno, ma sono anche personaggi molto indipendenti. Ora che mi ci fai pensare, la maggior parte dei miei partner sono stati bambini. È un’esperienza bellissima con loro, perché sono completamente diseducati. Fai la scena con una persona che ogni volta la fa in maniera diversa, non c’è mai la ripetizione che entra in gioco, è sempre come fosse la prima volta. 

Nell’eterno dilemma e coabitazione fra tecnica e sincerità, che attrice pensi di essere?

La parte della concentrazione per quei pochi secondi in cui si batte il ciak è la più complicata. Devi trovare il tuo spazio, ascoltare della musica, cercare di non pensare al fatto che tante persone intorno stanno lavorando con te sul set, ma poi quando danno l’azione sembrerà che ci sarai solo tu, anche se non è così. Sicuramente ho della tecnica, che mi permette di mantenere una capacità di concentrazione in alcuni momenti, poi invece non ci penso più e partono l’emozione, i ricordi, il transfer fra la persona che hai davanti e quella che in quel momento decidi di metterti in testa. È un lavoro di immaginazione immediato. Un viaggio tutto tuo. A volte mi capita di piangere dopo che danno lo stop, prendendomi un tempo solo mio, dopo aver tenuto. Sono molto emotiva, cerco di resistere tanto alle mie emozioni quando giro. 

Anche in questo sei pudica.

Ci provo in tutti i modi a non lasciar andare. Penso sia bello vedere quanta resistenza hai alle passioni quando fai un film. Nella vita facciamo tanta resistenza, non ci capita frequentemente di lasciarci andare. Abbiamo paura, mille sensazioni.

C’è un ruolo che vorresti fare in questo momento, per cui senti sia il momento giusto?

Mi piacerebbe molto fare un film storico, una donna del passato che ha provato a cambiare le cose. Una come Marie Curie.

foto di Alberto Novelli



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