giovedì 15 luglio 2021

France: recensione del film di Bruno Dumont in concorso al Festival di Cannes 2021

Che sfacciato, Bruno Dumont. E non solo nel senso di irriverente.
La protagonista del suo film - una giornalista televisiva famosissima, ambiziosa e un po' (tanto) manipolatrice  - si chiama France: che il regista stia cercando di dirci qualcosa?
Nella prima scena del film, poi, Dumont mette digitalmente a confronto la France di Léa Seydoux con il vero Emmanuel Macron, in una scena così chiaramente fasulla (a cominciare da un opinabile green screen) da non poter che suscitare più di un dubbio: che il regista stia cercando di dirci qualcosa?

Attraverso la parabola della sua protagonista - che entra in crisi dopo un banale tamponamento stradale e riflette sui suoi privilegi, che entra in depressione, lascia lo schermo e va in clinica in Svizzera, che poi ricomincia a lavorare ancora più manipolatrice di prima, e poi cade di nuovo nella polvere e poi di nuovo, forse, si rialza ma non migliora - quel che France ci vuole raccontare è piuttosto evidente.
E non esattamente nuovo.
Ci dice che l'informazione è un carrozzone mediatico, una echo chamber di narcisismo e opportunismo, una fabbrica della realtà così come la vorrebbe lo spettatore. È fasulla, insomma. E lo stesso vale per la politica ("la politica cerca i voti, l'informazione gli spettatori"), ma anche per le relazioni personali, i rapporti di lavoro, i sentimenti, l'etica.
In breve: la vita dei nostri tempi.

Ok.
E come ce lo dice questo, Dumont? Mettendo in scena la storia di France nella maniera più artificiale possibile, con una fotografia nitida e piatta da rotocalco patinato, con una recitazione impostata sul modello delle sitcom e delle soap, con l'esplicitazione sottile ma evidente di ogni artificio (il green screen dell'inizio, certo, ma anche quello di tutte le scene in auto, per dire, ma non solo).
E però: l'intento è chiaro, il risultato più che opinabile.

Dumont non si fa scrupoli, ed esagera. Al dramma vagamente da telenovela mescola spruzzate dell'umorismo grottesco di P'tit Quinquin e Ma Loute, lì esilarante, qui mai azzeccato e anzi a tratti fuori luogo. Appiattisce tutto nella superficie dell'immagine, ma ci ossessiona coi primi piani e le lacrime ostentate di una Léa Seydoux che pare un po' a disagio con lo stile di recitazione bipolare e sopra le righe richiesto dal regista, e risulta talmente invadente da diventare un po' stucchevole.

Ma il problema vero di France è che, a forza di voler denunciare la plastificazione del nostro mondo, lo svuotamento del significato a tutto vantaggio dei "contenuti", la dittatura dei social network e la menzogna diffusa, finisce con far sembrare falso e un po' vuoto perfino il cinema. Almeno il suo cinema.
E serve a poco che, nel finale, sembri quasi farsi serio, e sincero, mettendo la sua protagonista di fronte a qualcosa di importante, come la necessità forse imprescindibile di poter cambiare, migliorare, lasciarsi alle spalle errori e peccati.
Quel che non fa la sua protagonista.



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