Un mondo in cui il ricordo è nostalgia insopportabile, segnato dal dolore di una Fine che nega la bellezza. Un territorio poco battuto dalle nostre parti è al centro del fumetto La terra dei figli di Gipi, così come dell’adattamento libero eppure fedele di Claudio Cupellini, in arrivo al cinema dal 1 luglio per 01 Distribution, dopo la presentazione al Taormina Film Festival.
Prodotto da Indigo Film con Rai Cinema, il film è stato scritto da Filippo Gravino e Guido Iuculano, oltre che dallo stesso regista, e ha come protagonisti il giovane rapper romano Leon de La Vallée, all’esordio al cinema (il Figlio), Paolo Pierobon (il Padre), Valeria Golino (la Strega) e Valerio Mastandrea (il Boia).
In La terra dei figli la fine della civiltà è arrivata. Non sappiamo come. Un padre e suo figlio, un ragazzino di quattordici anni, sono tra i pochi superstiti: la loro esistenza, su una palafitta in riva a un lago, è ridotta a lotta per la sopravvivenza. Quando muore il padre, il figlio intraprende un viaggio alla ricerca di qualcuno capace di leggere, a lui analfabeta, le pagine di un misterioso diario che il padre scriveva ogni sera.
Abbiamo intervistato telefonicamente il regista, Claudio Cupellini.
Come dare colore a questo mondo algido, creando empatia nello spettatore?
Ho cercato di renderlo subito partecipe di un mondo difficile e ostile, senza imbrogliare. Fin dalla prima scena non mettiamo in buona luce il nostro protagonista, appena conosciuto. Il tentativo era essere totalmente onesti e raccontare quasi per accumulo le esperienze e il vissuto di questo ragazzo, avvicinando subito lo spettatore al suo mondo e alla privazione dei sentimenti che lo caratterizza.
Nel fumetto di partenza di Gipi i figli protagonisti sono due, mentre nel film è uno solo. Volevi alimentare il senso di solitudine, non dandogli oltretutto un nome?
È stata la prima decisione che ho preso, quando ci siamo messi a scrivere la sceneggiatura. Mi sembrava evidente che, per quanto nel fumetto funzionasse perfettamente avere due figli, in un film ci poteva essere qualcosa di consolatorio nell’avere una sponda sentimentale data dalla presenza di un fratello, nel momento in cui si veniva sgridati o picchiati. Volevo aumentare la solitudine e la fragilità del figlio, non dandogli la possibilità di aver avuto delle esperienze sentimentali: ad ogni violenza da parte del padre sarebbe altrimenti corrisposta la vicinanza consolatoria di qualcuno. Ho cercato di radicalizzare e sintetizzare la figura del protagonista in un solo personaggio, privandolo anche del nome, rendendolo in un certo senso universale e da un’altro punto di vista togliendogli un’identità. Il padre gli aveva precluso tanti aspetti che aiutano a formare un essere umano.
È molto affascinante il discorso che emerge sull’educazione. Viene negato l’amore e così facendo, il padre, per il bene del figlio, per renderlo più forte, gli nega anche il passato pre apocalittico, questi ricordi che sono nostalgia inaccettabile per una persona nata da poco. C’è qualcosa di tuo, nel racconto di un padre e di un figlio, il cuore del film?
Quello che c’è di mio appartiene al luogo della memoria, perché quando si diventa padri è come se coltivando l’educazione di un figlio si rivivessero tutte le esperienze vissute già, che si metabolizzano ancora di più, un’altra volta, come se si separassero i semi buoni da quelli cattivi degli insegnamenti ricevuti. Ci si prende cura di un essere umano. In questo senso è stata preziosa la mia esperienza di padre anche raccontando la negazione di un aspetto.
Ci sono due elementi con cui un adattamento per il cinema de La terra dei figli doveva fare i conti: da una parte la cultura, o meglio la sua assenza, rappresentata da un diario scritto dal padre dal contenuto ignoto al figlio, e dall’altra la bellezza. Il film cerca un equilibrio fra il valore estetico, le atmosfere e un mondo in cui la bellezza è umiliata.
È sicuramente uno degli aspetti più difficili e su cui abbiamo lavorato di più insieme al direttore della fotografia. Volevamo raccontare un mondo morto, disabitato, dove, come ci ripetevamo sempre, tutto era andato a male, marcito. La bellezza era negata, sia da un punto di vista sentimentale che da un punto di vista visivo. Allo stesso tempo lavorando sulle immagini ci accorgevamo che la natura del Delta del Po aveva qualcosa di implacabile. Era come se avesse una forza superiore a qualsiasi tipo di sconvolgimento, si prestava a essere rappresentata come una natura malata, minacciosa e ostile, ma in questa sua grandezza devastante c'era anche qualcosa di bello. Da qui il tentativo di raccontare anche con molti campi larghi, rendendo il paesaggio protagonista come fosse un personaggio del film.
Poi c’è il diario, con il figlio che cerca una risposta a una domanda che è fra quelle cruciali che tutti ci poniamo: il nostro amore è ricambiato? Qual era per te l’importanza di queste pagine, anche motore del suo spostarsi lungo il fiume?
Il diario è il secondo personaggio occulto del film, non è solo una funzione, è anche portatore di luce, ma anche un tabù che non si può infrangere. Rimane chiuso per tutto il racconto. Racchiude in sé, però, il mistero e il segreto della bellezza, che però al figlio è preclusa. Abbiamo quindi cercato di renderlo sempre presente, di raccontarlo continuamente, per poi, con un secondo tradimento virtuoso nei confronti di Gipi, arrivare al momento cruciale del film, in cui vengono verbalizzate le parole che sono nel quaderno.
Una funzione anche catartica, e il dolore di un pianto vietato.
Al figlio viene insegnato che non si deve piangere, perché a quanto ne sa lui è una manifestazione di debolezza, mentre le lacrime, un essere umano educato nella maniera giusta, non dovrebbe mai trattenerle. Nel momento in cui le parole escono, anche le dighe delle lacrime si rompono.
È anche una storia sull’invecchiare, per quanto riguarda i personaggi che hanno vissuto il pre apocalittico. Racconta l’importanza della testimonianza, l’eredità che si lascia ai figli.
Ho cercato di declinare queste tematiche attraverso i personaggi incontrati dal protagonista nel corso della storia. C’è la negazione della memoria che appartiene al padre, c’è un’inconsapevolezza del passato, così come inizia a esserci una conversazione sulla memoria, un primo indizio di quanto il ricordo sia importante, attraverso il personaggio della strega, Valeria Golino, portato avanti poi ulteriormente dal boia, Valerio Mastandrea. Il tema del ricordo è un momento centrale in un romanzo di formazione.
È un film post apocalittico, un genere affrontato anche negli ultimi anni dal cinema. Avevi in mente dei riferimenti legati a questo genere?
Sono sempre indiretti. Sapevo che non avrei voluto, ma neanche potuto, fare un film come in America. Oltre a Gipi, anche io ho amato Mad Max, lo ritengo un film divertente e tecnicamente spettacolare, uno dei film più belli degli ultimi anni dal punto di vista cinematografico. Però non era il film che avrei potuto e voluto fare, volevo fare un film estremamente sentimentale. Mi rendevo conto del rischio di avere momenti contemplativi, a tratti rarefatti, ma in un contesto di solito determinato da molta azione spettacolare. Volevo negare questi principi e sentivo che poteva essere un intuizione giusta, volendo fosse una storia sentimentale. Detto questo, è ovvio che la lettura de La strada di Cormac McCarthy è stata per me fondamentale, ma ci sono tanti altri film, che apparentemente non c’entrano niente come Il ragazzo selvaggio di Truffaut, che mi hanno ispirato ancora di più.
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