Nel 2014 moriva, a 70 anni, Harun Farocki uno dei più grandi e meno conosciuti registi tedeschi del secondo dopoguerra, forse il più importante regista di Essay-Filme del cinema tedesco. Per molti anni Farocki ha insegnato alla dffb (la “Deutsche Film-und-Fernsehakademie” di Berlino), dopo esserne stato a metà degli anni '60 uno dei primi studenti. Il suo allievo principale è stato Christian Petzold, nato nel 1960, autore di una decina di film nell'arco di più di vent'anni, oltre a una serie di film per la TV, forse il più importante autore tedesco contemporaneo. Gli ultimi due film, non i suoi due migliori, – La scelta di Barbara e Il segreto del suo volto, ambientati rispettivamente nella DDR del 1980 e subito dopo la fine della seconda guerra mondiale – sono arrivati anche in Italia. Sapendo che negli ultimi anni Petzold aveva lavorato alla trasposizione del romanzo autobiografico di Anna Seghers intitolato Transit (Transito, 1944) incentrato sui tedeschi inseguiti e perseguitati da francesi e dalle truppe di occupazione naziste, in attesa a Marsiglia di emigrare oltre Oceano (la Seghers, per esempio, emigrò in Messico), siamo stati sfiorati dal dubbio che un autore (capostipite della cosiddetta “Berliner Schule”) un tempo attentissimo, seppur con sguardo freddo e fenomenologico, alle contraddizioni del presente della Germania riunificata (la splendida trilogia Gespenster, Yella e Jerichow) si fosse quindi concentrato – pur dando vita a due ottimi film - sul passato, bene “rifugio” di chi sempre meno ha da dire cose interessanti sul presente (e infatti gli ultimi due film erano arrivati in Italia, dove il paradigma del film tedesco sul passato resta quello che funziona meglio) per poi, addirittura, “finire” a trasporre testi letterari, sorta di ultima Thule di chi è un po' a corto di idee.
Ma invece le cose non stanno affatto così. Transit che in italiano hanno intitolato in modo non del tutto convincente La donna dello scrittore è un film ambiziosissimo: non è una trasposizione letteraria classica ma è una specie di Essay-Film nella tradizione di Farocki, cui non a caso è dedicato. Da Anna Seghers Petzold ricava certamente una serie di personaggi e di dati: il giovane protagonista maschile un po' senz'arte né parte ma che nel corso dell'opera acquisisce consapevolezza di sé, che nel romanzo non ha un nome e che qui viene battezzato Georg (come un personaggio minore del testo), la protagonista femminile Marie, la costellazione di fondo (l'io narrante deve portare dei messaggi a uno scrittore, per l'appunto il marito di Marie, ma lui nel frattempo è morto: che fare?), l'io-narrante (Georg) che si innamora di Marie non si capisce fino a che punto ricambiato, e poi le mille altre storie dei mille altri profughi, la dialogicità del testo, l'attesa del visto per il paese di arrivo, l'attesa dei visti di transito per i paesi da attraversare, la depressione alternata a improvvisi entusiasmi fra gli emigrati, le loro storie – e poi Marsiglia. Tutto questo nel film di Petzold c'è ma al tempo stesso conta fino a un certo punto perché quel che a Petzold (che è come al solito anche autore della sceneggiatura) interessa è una riflessione sull'essere in transito come condizione politico-antropologica, depurando la trama originaria di tutte le specificità storiche (i tedeschi in fuga dai tedeschi) e lasciando convivere, conflagrare questi clandestini dei primi anni '40, con i clandestini di oggi, anch'essi a Marsiglia, con dialoghi di, in fondo, paradossale improbabilità e astrazione. Per riprendere una metafora cara a Petzold gli emigrati di allora sembrano spettri che si aggirano nella contemporaneità, in una città quindi evidentemente non ricostruita e anticata ma che è la città di oggi, senza nemmeno rinunciare ad alcune riflessioni di carattere urbanistico sulla Marsiglia contemporanea, bellissima e quasi irriconoscibile dopo le trasformazioni in occasione della designazione di quella città a capitale europea della cultura, nel 2013. Tuttavia, come i pannelli illustrativi di certa arte contemporanea, La donna dello scrittore, al di là della bellezza delle immagini che con Petzold affiancato dal fido Hans Fromm, direttore della fotografia, non si discute mai, è uno di quei film che non presentano una immediata plausibilità concettuale ma che ne guadagnano non appena il regista, come successe in conferenza stampa, quando il film vienne a febbraio 2018 presentato a Berlino, spiega con dovizia di particolari e, come al solito, con una dialettica molto persuasiva le sue intenzioni estetiche. Durante la visione del film, invece, l'interazione di passato e presente, qua e là, zoppica: il direttore d'orchestra in attesa del visto per il Venezuela che racconta di essere specialista di Luigi Nono, il ragazzino maghrebino amante del calcio che discetta del Borussia Dortmund appaiono delle forzature un po' troppo intellettuali di un film – è innegabile - ad alto tasso di cerebralità. Fino nei titoli di coda, accompagnati da Road to Nowhere dei Talking Heads a significare l'inappartenenza ontologica di profughi e clandestini, ma forse degli esseri umani tout court.
(Transit); Regia: Christian Petzold; sceneggiatura: Christian Petzold fotografia:Hans Fromm; montaggio: Bettina Böhler interpreti: Franz Rogowski (Georg), Paula Beer (Marie), Godehard Giese(Richard), Lilien Batman (Driss) produzione: Schramm Film Körner & Weber, Berlin, neon productions, Marsiglia, ZDF, Magonza, ARTE, Strasburgo; origine: Germania-Francia 2018; durata: 101'.
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