Una tempesta scaraventa sull'isola dell'Asinara un gruppetto eterogeneo di naufraghi: quattro camorristi, le due guardie che li stavano accompagnando in penitenziario, e i quattro membri di una compagnia teatrale di giro. Tre dei camorristi decidono di spacciarsi per teatranti, con l'aiuto (riluttante) del capocomico Oreste Campese, per sfuggire alla cattura da parte del direttore del carcere. Ma De Caro, il direttore, è uomo diffidente, e sospetta subito che la compagnia Campese ospiti qualcuno dei carcerandi sopravvissuti al naufragio.
Il regista sardo Gianfranco Cabiddu mescola due testi di Eduardo De Filippo "L'Arte della Commedia" e la traduzione che Eduardo fece de "La tempesta" di Shakespeare, alla cui registrazione Cabiddu ha collaborato - per creare (con Ugo Chiti e Salvatore De Mola) una sceneggiatura originalissima e stratificata che racconta la capacità del teatro di trasformare, ma anche sublimare, la realtà, e la volontà degli uomini di reinventarsi ritagliandosi di volta in volta i propri costumi di scena dalla stoffa di cui sono fatti i sogni. La stoffa dei sogni, appunto, è una continua citazione shakespeariana (non solo da "La tempesta") e rende omaggio a due maestri del teatro come il Bardo e De Filippo rivelandone le profonde assonanze al di là della "scorza" linguistica: assonanze che hanno a che fare soprattutto con la capacità di entrambi gli autori di "leggere" e poi di raccontare la natura umana nella sua miseria e nobiltà.
L'ambientazione all'Asinara, rimasta incontaminata grazie a decenni di isolamento totale, è la perfetta quinta teatrale per rendere la vicenda atemporale e dilatare lo spazio entro il quale Campese e la sua compagnia ricostruiscono il proprio palcoscenico: e l'emozione del momento in cui la rappresentazione va in scena, in virtù dello sforzo di artigianalità e immaginazione dell'intera troupe, ricorda il brivido dell'inquadratura in cui Georgés Melies passava davanti al set marittimo di Hugo Cabret. Il cast è molto ben assortito (tolta la nota stridente della dizione regionale delle due interpreti più giovani): Sergio Rubini mette a servizio del suo Oreste esperienza teatrale e gusto per la pantomima, Ennio Fantastichini dà peso e spessore a De Caro, Renato Carpentieri è un capo camorrista con la saggezza atavica del Padrino. Sono tre figure paterne, tre Prospero in una sola Tempesta, e i loro dialoghi sono i più letterari della sceneggiatura perché tutti e tre si vivono come protagonisti della tragicommedia che sono costretti a recitare. Il quarto protagonista in scena è il più tragicomico in assoluto: il pastore sardo Antioco, un Calebano arcaico che si esprime in una lingua comprensibile solo a se stesso, e ciò nonostante cerca continuamente il contatto umano con i gli "invasori" che hanno colonizzato la sua isola. In questo personaggio, magnificamente interpretato da Fiorenzo Mattu, c'è tutto il dolore di Cabiddu per lo stupro subìto dalla sua terra, e l'istante in cui la messinscena dà voce (in napoletano, come in inglese o in sardo stretto) all'ingiustizia di quella violazione è pura trasfigurazione teatrale.
C'è un'evidente partecipazione anche di chi, come la sempre convincente Teresa Saponangelo, si mette umilmente a servizio di un ruolo minore, ricordando che in teatro come al cinema non esistono piccoli ruoli ma solo piccoli interpreti. C'è un'attenzione a tutti gli elementi della scrittura cinematografica, come il montaggio preciso di Alessio Doglione che interseca le linee narrative facendo corrispondere al bussare su una porta l'aprirsi di un'altra, e che fa chiudere una serratura fuori scena invece che mostrarne direttamente la quieta violenza: regia e montaggio non indugiano su un'inquadratura o una battuta perché sanno che il tempo di riflessione trova comunque il suo spazio, ed è uno spazio interiore non manipolabile. Ci sono effetti speciali artigianali commoventi, non solo nella messinscena della rappresentazione di Oreste, ma anche in quella di Cabiddu, che apre il suo film con una tempesta pittorica e lo intervalla con le illustrazioni di un'antica edizione delle opere di Shakespeare.
La finzione scenica è un insieme di piccoli miracoli, non ultimo quello di riuscire a realizzare un film che, sulla carta, ha certamente spaventato i produttori affamati di box office, e che invece, a conti fatti, si rivela il perfetto candidato per un Oscar al miglior film straniero: perché senza la furbizia di certe operazioni fatte a tavolino da registi di nome altisonante, La stoffa dei sogni racconta un certo modo di fare cinema in Italia, una certa umanità cui non si può mancare di rispetto, un patrimonio iconografico che contiene in sé la lezione dei grandi maestri.
Il film di Cabiddu è un baule ricco di sorprese approdato quasi per sbaglio sulle rive di quel cinema italiano sterile e scontato che confonde finzione con falsità. E dunque La stoffa dei sogni è anche una metafora sulla libertà degli artisti, raccontata su un'isola che è diventata sinonimo di costrizione: perché il teatro, per chi lo sa capire, "mette le ali al cuore e alla ragione".
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