giovedì 3 settembre 2020

Venezia, il festival, il virus, le lamentele e le terrazze

Erano bellissime, e impressionanti, le immagini viste in Molecole, il film di Andrea Segre che è stato protagonista della pre-apertura della Mostra del Cinema di Venezia 2020.
Il regista, che era a Venezia per un progetto sulla città lagunare che stava sviluppando, è rimasto bloccato lì a lungo quando, allo scoppiare della pandemia, è scattato il lockdown che ha paralizzato il nostro paese e impedito gli spostamenti, permettendo però a Segre di girare in una Venezia deserta come mai l'avevamo vista.

I mesi sono passati, le cose sono andate cambiando, la stretta si è allentata, e viviamo oramai in uno stato di normalità relativa (molto relativa, e ancora più surreale di quanto non fosse la fase del confinamento, a ben pensarci), e oggi Venezia non è più deserta, come deserto non è il Lido, che è tornato sede del Festival di Venezia anche in questo 2020, anche nell'anno del Covid-19.

Non è deserto, il Lido, ma di certo non è nemmeno quello al quale gli accreditati erano abituati, e la cosa fa un certo effetto.
Le misure di sicurezza - necessarie e indispensabili - hanno fatto proliferare termometri e termo-scanner, dispenser di gel igienizzante (che oramai rappresentano un'attrattiva irresistibile e irrinunciabile, anche quando situati a poche decine di metri l'uno dall'altro) e le fondamentali mascherine; a diminuire, invece, sono stati gli accreditati stessi, necessariamente ridotti dalla Biennale così come i posti occupabili nelle sale del Lido, e probabilmente anche i curiosi che si solito si assiepano per riuscire a carpire la nuca o il lontano profilo di questo o quel divo.
(non è mancato, però, il ragazzo che si mescolava ai videoreporter cercando di incontrare la presidente di giuria Cate Blanchett, e che indossava una mascherina foderata esternamente con due foto della star australiana).

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Per farla breve, ma lo sapevamo, Venezia 2020 è un festival insolito, inedito, eccezionale. Un'edizione che probabilmente passerà alla storia.
Ciò che è rimasto invariabilmente ordinario, però, e che probabilmente con cambierà mai finché i festival continueranno a esistere, sono le lamentazioni di giornalisti e critici, che prima ancora di mettere piede in laguna attaccano a sobbollire solfe infinite nemmeno dovessero affrontare un doppio turno in fonderia, cucire abiti destinati a essere pubblicizzati da Chiara Ferragni, o erigere a mani nude piramidi di sabbia e pietre in onore dei Rettiliani responsabili della diffusione del virus.

Prima c'era troppa gente; oggi ce n'è poca.
Prima ci si doveva mettere in coda sotto il sole; adesso bisogna smanettare col sistema di prenotazione dei posti in sala online.
Prima il programma era troppo commerciale; quest'anno è troppo radical-cinefilo.
E poi le mascherine, oddio non respiro, due ore in sala così, come farò mai?
E il red carpet non si vede, e hanno tolto dei tavolini: non c'eran lì dei tavolini, l'hanno scorso?

Non fosse stato sempre così, ci sarebbe da sospettare che alla base di tanto sbuffare ci sia una riduzione inevitabile degli eventi mondani che sono sempre parte integrante di un festival, feste e cocktail e soirée di varia natura.
In questa situazione agli accreditati non rimane altro che aggrapparsi alle cene di gruppo che riuniscono scuole di pensiero, squadre e conventicole, nei ristoranti del Lido - per ora quasi deserti - o nelle case più accoglienti, magari dotate di balconi o, meglio ancora terrazze.
Dove sarebbe bello che qualcuno dei dolenti eruditi si ricordasse quel che succedeva e veniva detto - sul cinema, sui critici, ma non solo - dai protagonisti di quel film enorme che è, appunto, La terrazza di Ettore Scola.



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