Siamo a cavallo tra il 2002 e il 2003 e sono in corso a Matera le riprese del film La passione di Cristo.
Il cattolico tradizionalista e preconciliare, così come si definisce lui stesso, nonché regista Mel Gibson, è sul set per espiare i suoi e i nostri peccati. Non è un sostenitore della Chiesa, in quanto istituzione, e la sua visione religiosa è conservatrice e intransigente. Sta dirigendo attori italiani, bulgari e rumeni, ai quali è richiesto di recitare esclusivamente in latino e aramaico, in quella che diventerà una ferocissima trasposizione cinematografica del racconto dei vangeli. L'unico americano è Jim Caviezel, il protagonista.
La Passione di Cristo, uscito al cinema nel 2004, è ancora oggi il film vietato ai minori di 17 anni che negli USA vanta il più alto incasso, pari a 370 milioni di dollari.
Ma c'è un'altra storia da raccontare, accaduta in quegli stessi giorni. L'impatto spirituale, accogliente o respingente, non l'hanno avuto soltanto gli spettatori in sala.
Durante le riprese, l'aria che si respirava sul set era diversa da qualunque altro film. La prova arriva grazie al documentario The Big Question che è stato girato in diversi giorni nelle pause tra un ciak e l'altro. Francesco Cabras e Alberto Molinari ebbero l'intuizione di fare una domanda a tutti coloro che avessero voglia di rispondere, attori e maestranze.
O meglio, la domanda. Tanto semplice e banale, quanto profonda e definitiva.
"Dio esiste?" è il punto di partenza di un'estesa conversazione sulla percezione del divino, che spoglia tutti gli intervistati mettendoli di fronte a loro stessi. Il risultato trascende l'opera che lo contiene, i registi se ne accorgono e adottano uno stile artistico originale per inseguire quel flusso di coscienza.
Enstusiata dell'idea, Mel Gibson dapprima co-produce il documentario in quota maggioritaria con la sua società Icon, ma quando vede la versione finale ritratta tutto per "divergenze teologiche". Il film viene successivamente acquistato e distribuito negli Stati Uniti. Stranamente in Italia nessuno ha il coraggio di portarlo in sala, tanto meno in televisione.
A distanza di 20 anni dalla sua realizzazione, The Big Question è stato proiettato al cinema per la prima volta lo scorso 12 aprile 2023 nel multisala Barberini di Roma. La sala fa il tutto esaurito e si replica con una nuova data nello stesso cinema il 26 aprile.
Il documentario risorge grazie a UAM.TV che lo inserisce nel proprio catalogo e lo porta in giro per il Paese con una serie di appuntamenti: il 9 maggio di nuovo al Barberini, il 24 dello stesso mese al Monicelli di Narni, 29 al City Light di Milano. Seguiranno Bologna, Firenze, Torino, Aosta, Vicenza, Padova.
Ripercorriamo la storia di The Big Question insieme a Francesco Cabras e Alberto Molinari.
The Big Question: intervista agli autori Francesco Cabras e Alberto Molinari
In quali ruoli eravate impegnati sul set de La passione di Cristo?
FC: Fui scelto da Gibson nel ruolo di Gesmas, il ladrone cattivo. Sebbene abbia avuto più di un’esperienza in produzioni internazionali e sia molto interessato al lavoro psicologico degli interpreti, non posso considerarmi un vero attore e da regista ero più attratto da cosa avvenisse sul set. Un grande orgoglio fu di avere come partner in una scena madre Pasquale, il vecchissimo corvo imperiale, proprio lui, protagonista di Uccellacci e Uccellini di Pasolini. Era un privilegio farsi mangiare l’occhio da lui.
Come è arrivata l'idea di porre "La grande domanda" alle persone che lavoravano al film, per poi farne un documentario?
AM: A un certo punto viaggiavamo molto in giro per il mondo e abbiamo pensato spesso che avremmo dovuto approfittare di questa situazione per porre alcune domande, sempre le stesse, ad un campione di persone vario e multietnico che rappresentasse approcci e credo diversi. L’impegno del lavoro non ci ha mai però concesso il tempo necessario per attuare questi intenti ed è rimasta per diversi anni un’idea nel cassetto. Evoluzione di quel concetto fu poi quella di collocare letteralmente la nostra idea all’interno di quella città estemporanea che è il set di un film. Un microcosmo a sé, non casuale, ricco di una selezione umana trasversale degna di una tragicommedia.
Come siete riusciti a convincere Mel Gibson nel lasciarvi portare avanti il progetto?
AM: Un piccolo cineclub di Matera aveva organizzato una maratona di lavori Ganga, la produzione fondata da me, Francesco Cabras e Francesco Struffi, montatore e digital artist, co-autore a tutti gli effetti di The Big Question. Cabras aveva invitato Gibson alla rassegna senza riporvi alcuna speranza ma lui arrivò restando quasi tre ore. Forti di questo precedente gli abbiamo sottoposto l’idea, al suo team e a Enzo Sisti, il produttore italiano che ci avrebbe poi molto supportato. Sorprendentemente dopo pochi giorni è arrivato un contratto in cui Gibson si proponeva come produttore maggioritario. Esattamente come avviene in Italia no? Soprattutto come tempi di risposta…
Quale è stato l'aspetto più difficile della lavorazione del vostro documentario che ancora oggi a distanza di 20 anni vi ricordate nitidamente?
FC: Credo le interminabili interviste. Siamo arrivati a circa 200 ore di girato comprese le altre riprese con Greg, il cane. Tu me lo insegni, tenere alta l’energia e l’attenzione in un’intervista è cruciale, soprattutto su temi delicati come quelli spirituali: appena cedi il tuo interlocutore scompare all’istante, non lo recuperi più. E farne anche molte al giorno è stato massacrante, davvero. Altrettanto, ma più sul piano fisico, era correre dietro al cane su e giù per le colline lucane. Anche il lavoro di montaggio è stato complesso, quasi un anno calcolandolo dalle prime selezioni.
Ci fu qualcosa che vi stupì particolarmente sulle risposte degli intervistati?
FC: A un certo punto la cosa più stupefacente era l’apparente banalità delle risposte. Devo confessare che personalmente mi sono quasi arrabbiato alle volte e non mi fa un grande onore. Eppure, non per fare l’ecumenico, ma una grande porzione di quella banalità era così vera, pulsante, sorgiva e indifesa che brillava di umanità. Ed era un tesoro, perché ciò che è banale può essere altrettanto fondamentale. L’ho capito meglio col tempo. D’altro canto, ogni volta che a tutti e tre ci capita di rivedere il documentario troviamo nuovi spunti, ridiamo o ci stupiamo in positivo ancora per affermazioni che conosciamo a memoria, probabilmente siamo noi un po’ scemi, ma capita. Poi ci sono alcune risposte che al di là del contenuto hanno una grazia poetica disarmante.
Quando il documentario fu completato, andaste a presentarlo negli USA. Con chi parlaste e cosa successe?
AM: Siamo andati a Venice, Los Angeles, negli studi della Icon per mostrarlo a Gibson. Ricordo che dopo aver lasciato la macchina ci perdemmo letteralmente nel parcheggio privato del basement, una situazione metafisica e un po’ da presagio.. Io per rompere il ghiaccio poco dopo averlo salutato mi giro e mi calo i pantaloni mostrando il sedere e urlando “I am William Wallaaaace!” come faceva lui in Braveheart. Vedo Francesco che sbianca e praticamente sviene. Gibson resta di pietra per qualche istante, poi scoppia a ridere come un matto. Segue un pranzo di ottime bistecche delivery insieme anche a Jim Caviziel, belle chiacchere senza distintivi e molto relax. Dopodiché parte finalmente la visione. Da qui la storia si complica e sfaccetta in molti rivoli ma cerco di riassumerla. Mel definì The Big Question come una sorta di capolavoro dal punto di vista artistico ma non era d’accordo sui contenuti. Non voleva che un documentario uscito dal suo set si basasse sul dubbio piuttosto che sulla fede incontrovertibile. Ma questo diventò chiaro solo dopo. Dunque lo bloccò, sarebbe dovuto uscire al cinema e poi in dvd ma non fu così. Per noi fu la disperazione. Eravamo coscienti di aver fatto un’opera indipendente e diversa dal pensiero del produttore ma credevamo fosse un plus valore. Ci eravamo sbagliati. Per farla molto breve, passarono mesi tremendi di tentativi, trattative, mediazioni e soprattutto silenzi. Quando tutto sembrava definitivamente perso, Gibson compie un Beau Geste, rinuncia alla sua parte maggioritaria, ci regala il film senza esigere tagli, solo il divieto di usare la sua immagine nella promozione. Tutto ciò perché nonostante tutto, si tratta di una persona eticamente onesta, è un artista e avendo comunque apprezzato il nostro lavoro decide di liberarlo. Il treno principale era passato ma comunque ne stava arrivando un altro. Subito dopo l’AFI Festival di Los Angeles lo seleziona in concorso, Variety gli dedica due pagine con foto, addirittura Tarantino ci riconosce a una festa, surreale. L’agente di Michael Moore, Andrew Herwitz, lo prende e distribuisce con ThinkFilm nelle sale USA. Da lì tanti festival internazionali, alcuni vinti, critiche spesso molto gratificanti.
Perché non venne distribuito in Italia?
FC: In Italia non è mai uscito, né cinema né TV. Solo in dvd nella splendida collana Rarovideo ma non si trova più. Il perché non lo so. Firmammo anche con una grossa distribuzione che poi ritrattò. Infiniti tira e molla che non portavano a niente, una storia antica e comune a tanti del resto. Dopo molti incontri e promesse la sensazione fu che gli ambienti più cattolici lo vedevano come troppo irriverente o laico, e quelli più progressisti lo consideravano uno strano oggetto non classificabile, paradossalmente troppo vicino a The Passion benché ne rappresentasse in un certo senso, con le dovute proporzioni, un contraltare culturale e stilistico. Però fu molto bello proiettarlo presso piccoli circoli e parrocchie create da sacerdoti particolarmente illuminati e liberi. Fino a oggi però, perché grazie a Thomas Torelli e Uam-TV sta esordendo in piccola scala nelle sale italiane e sull’omonima piattaforma. Una vera rinascita.
Da tempo si parla del sequel, Passion of the Christ: Resurrection, che risulta essere sempre in fase di pre-produzione. Sapete qualcosa che noi non sappiamo? Vorreste essere coinvolti?
AM: Ogni anno ci giungono voci da fonti piuttosto attendibili che le riprese stanno per iniziare ma non accade mai. Pare proprio che il 2024 sia l’anno giusto. Dopo tutto quello che è accaduto l’ipotesi di essere coinvolti sarebbe imprevista quanto benvenuta. Da Mel Gibson ci si può aspettare di tutto in effetti, e spunti per un The Big Answer o un The Bigger Question la vita ce ne offre ogni giorno.