domenica 28 maggio 2017

Fortunata

La considerazione che muove gran parte della produzione di Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto è che, negli strati sociali più disagiati, nella realtà che un tempo sosteneva la poesia di un Pasolini e prima ancora di un Verga, i contrasti siano più netti e le storie meglio orientate verso colori primari e passioni forti.
Nel mondo delle classi più abbienti, dove non si vive in pieno il dramma del mettere insieme un pranzo con la cena, dove non c'è la fatica del portare a casa uno stipendio abbruttendosi in un lavoro che abbruttisce tanto ha il sapore dello sfruttamento, vige quindi un tono grigio che poco si presta alle campate larghe del melodramma e in cui ogni tinta calata con più vigore ha un sapore necessariamente forzato, quasi, verrebbe da scrivere, di bruciaticcio.

Forse gli autori di Fortunata e di tanti altri film e romanzi che hanno segnato la nostra vita culturale, hanno ragione nel partire da una premessa tanto semplice quanto apparentemente evidente. Forse è vero che dove le cose sono più difficili, le emozioni sono più nette e magari anche più vere, se può aver senso fare graduatorie nello spazio ambiguo, soggettivo e intimo come è quello delle emozioni, ma ciò non toglie (e si tende un po' troppo a dimenticarlo) che, a contrasti che sono già naturalmente definiti, non c'è bisogno di aggiungere nero, così, per soverchio amore dell'arte.
Perché sarà anche vero che l'epos degli umili sollevava le pagine di Verga, ma per ragioni etiche prima ancora che estetiche. E sarà anche vero che un Visconti a Trezza, scavando sotto la fatica quotidiana di chi non ha neanche più il pane, trovava la fonte mai esaurita della tragedia greca, ma non per questo faceva indossare ai suoi eroi maschere e coturni.

Nel cinema di Castellitto e Mazzantini, invece, si ha l'impressione che la ricerca del tono forte, del contrasto netto superi ogni altra considerazione, che tutto il sentimento che anima la ricerca artistica (perché la loro in ogni caso è arte, e di pregevole fattura oltre tutto) stia nel bisogno urlato del sentimento altrettanto urlato con buona pace di un pubblico borghese che, come il dottorino interpretato con eccesso da Stefano Accorsi, si può far sedurre da quel mondo per un po', ma poi ritorna ad indossare il camice e a guardarsi intorno guardingo.

Si è fatto tanto parlare di Pasolini e Visconti, guardando le immagini di Fortunata, eppure il ricordo del magistero dei due giganti del nostro cinema è per lo più sbiadito. Del primo ritorna l'ambientazione borgatara a un passo dai monumenti del passato, il personaggio femminile forte in disperata ricerca di un riconoscimento sociale e l'anima sacra di un dolore che eternamente si rinnova. Del secondo il rapporto doloroso tra madre e figlia, il sogno del riscatto, l'ansia del costruire un domani mettendo da parte i piccioli di un lavoro a nero.
Riferimenti seri, ingombranti, vissuti con forza d'ambizione e una notevolissima cura del dettaglio e della narrazione (perché tanto Castellitto che la Mazzantini, una cosa sanno fare in maniera eccellente ed è raccontare). Eppure…

Eppure l'impressione è che il troppo stroppi, che non ci sia tutto questo bisogno di rimestare nei contrasti forti in cerca di tutto il nero che c'è. Che non c'è bisogno di animare i personaggi di tanti dolori non detti, di tante tragedie sepolte. Che non c'è bisogno di imbracciare il fucile per sparare raffiche di mitra. E che non c'è bisogno, finalmente, di far finire ogni esplosione con il botto più fragoroso.

In fondo quei contrasti netti che il mondo raccontato ci mostra naturalmente non hanno bisogno di artefazione e sovraccarico. Se un senso può avere manipolarli è per farne materia di grottesco come sembrano suggerire certe soluzioni sorrentiniane che, nel film, come appaiono così scompaiono, senza una reale ragion d'essere. Appesantirle, come nei vecchi melò di un tempo, è non averne rispetto, è non volersi, in fondo, sporcare le mani con la loro verità e la loro profondità. È, soprattutto, sorvolare sui silenzi, l'inespresso, il quotidiano che, nel suo grigio più anonimo, rende il nero raccontato più netto e più reale.

Anche Visconti in fondo, la sua Anna Magnani la faceva urlare nella notte silenziosa e indifferente, ma il suo grido cercava il campo lungo e non il primo piano. Esattamente come l'inquadratura di Pasolini si nutriva del controcampo dei palazzoni muti a raccontarci non solo il dolore del personaggio, ma anche il quieto orrore del contesto. Che era sì terribile, ma era tale perché umano e quindi abitato di quieta disperazione, laddove in Fortunata sembra vivere prima di tutto il bisogno di scena.
Così il contesto della Roma multietnica affannata nel ritrovare se stessa finisce per apparire più sfocato e macchietta di quanto fosse lecito e il magnifico personaggio messo al centro del dicorso, per conseguenza, finisce per apparire meno magnifico, il che è il vero peccato mortale di un film ben raccontato, ma come fosse vissuto da uno sguardo troppo "a priori".
Castellitto da par suo, rivela e dimostra ancora mano ferma e solida, soprattutto nella direzione degli attori. Eppure, se di Fortunata ci ricorderemo ancora nei prossimi anni, sarà soprattutto per la sublime prova di Jasmine Trinca capace di vivere il personaggio in ogni nervo e in ogni muscolo di un'interpretazione tutta cuore, ma non per questo senza ragione.

(Fortunata); Regia: Sergio Castellitto; sceneggiatura: Margaret Mazzantini; fotografia: Gianfilippo Corticelli; montaggio: Chiara Vullo; musica: Arturo Annecchino; interpreti: Jasmine Trinca, Hanna Schygulla, Alessandro Borghi, Stefano Accorsi, Edoardo Pesce, Rosa Diletta Rossi, Emanuela Aurizi; produzione: Indigo Film, HT Film; distribuzione: Universal Pictures International Italy; origine: Italia, 2017; durata: 103'



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