martedì 30 maggio 2017

D'après un vraie Festival

A Festival finito, sulla scia di un'adrenalina in evaporazione, ha senso dire ancora qualche parola sui verdetti di una giuria mai così singolarmente assortita come questa settantesima volta che in Croisette si sono svolti i giochi dell'evento cinematografico più famoso del mondo, esclusa forse la Notte degli Oscar. Visti tutti i titoli in gara per la Palma d'oro, sui quali prima che il Festival iniziasse grondava un'aspettativa andata senz'altro disattesa per colpa di qualche delusione grande (Wondestruck di Todd Haynes) o piccola (ma sempre delusione: Happy End di Michael Haneke) e comunque per una qualità media dei film non all'altezza degli standard dei loro autori in assenza di una “bomba” garantita su cui puntare senza esitazione, all'alba di domenica i pronostici erano i più disparati. Il favorito era 120 battements par minute di Robin Campillo, decisamente un bel film di forte impegno e impatto, magari un po' sbilanciato nella costruzione, ma arrivato dritto al cuore di quasi tutti gli accreditati: l'argomento (l'attivismo di Act Up, l'organizzazione che tra gli anni '80 e '90 richiamava con pasionarietà militante l'attenzione dei governi del mondo sulla gravità dell'AIDS e ne sollecitava l'impegno ad investire in cure e ricerche per sconfiggere il virus dell'Hiv) sembrava molto vicino alla sensibilità di Pedro Almodovar, Presidente di Giuria, che ha infatti rivelato di averlo proposto fin da subito per l'oro, accontentandosi poi di consegnargli “solo” il Grand Prix, per altro prestigiosissimo. Ma c'erano davvero film migliori in concorso? In molti, anche non necessariamente fans di Yorgos Lanthimos, si sono - giustamente - strappati le vesti per il suo The killing of a sacred deer, altri ancora, ma in misura inferiore, per l'ebraica saga familiare di Noah Baumbach, The Meyerowitz Stories, o per Nelyubov (Loveless) di Andrey Zviagintsev, splendido e livido autoritratto della Russia odierna, cui è andato comunque il Prix du Jury. I più cinefili tifavano per l'altro film russo, Krotkaya, del bielorusso (poi trasferitosi in Ukraina) Sergei Loznitsa, certamente un'opera di grande spessore e magnifica cinematografia, tuttavia forse troppo “autoriale” per venir considerata meritevole del massimo premio… Se però c'era in lizza un titolo che fin da subito aveva messo d'accordo tutti – chi gridava al capolavoro assoluto, chi, magari con occhio meno invasato, ne considerava i grandi pregi di impianto spettacolare e intelligenza narrativa – era The Square, il nuovo film del regista di Force Majeure (vincitore nel 2014 di Un Certain Regard) Ruben Östlund. Secondo chi scrive, un'operina furbetta e patinata che dietro la fattura abbagliante nasconde un compiaciuto e tutto occidentale mea culpa politicamente correttissimo, confezionato con perizia, sì, ma da arredatore di Club Vacanze di lusso: c'è da star certi che sono altri i membri della giuria ad essere cascati nella sua trappola, e a vanificare numericamente il sostegno al film di Campillo del Presidente Almodovar. E a The Square è andata infatti una Palma d'oro che comunque soddisferà il pubblico che andrà a vederlo in sala, convinto di guardare una cosa bella e lucida come un cellulare nuovo e intelligente come l'ennesimo romanzo di uno scrittore modaiolo di grido. Il premio più azzeccato è sicuramente quello per la Regia, attribuito a Sofia Coppola, che a Cannes ha portato in concorso The Beguiled, tratto dal romanzo di Thomas Cullinan di cui Don Siegel aveva realizzato nel 1971 una magnifica riduzione cinematografica al vetriolo con Clint Eastwood: La notte brava del soldato Jonathan. Nelle mani di Sofia, la torbida storia dell'omicidio di un soldato nordista (al posto di Clint qui c'è Colin Farrell) da parte di un gruppo di allieve di una scuola in Virginia durante la Guerra di Secessione americana, diventa un dramma trattenuto e sordidamente coltivato nelle più intime e soffocate pulsioni erotiche delle fanciulle e della loro istitutrice, un'austera e gotica Nicole Kidman. A lei, presente nel Concorso anche nel film di Lanthimos, e fuori Concorso con il nuovo film di David Cameron Mitchell, la Giuria ha dedicato un premio tutto speciale per il Settantesimo anniversario del Festival.
I premi agli attori sono andati, prevedibilmente per quanto riguarda l'interpretazione femminile, a Diane Kruger, tragica protagonista di Aus dem Nichts di Fatih Akin, e sorprendentemente a Joaquim Phoenix per quella che a tutt'oggi è senz'altro la sua prova attoriale meno riuscita, per altro in un film tra i più brutti, se non il più brutto (anche più dell'imbarazzante L'amant double di Ozon) della competizione, You were never really here, di Lynne Ramsay, misteriosissimamente premiato per la sceneggiatura ex aequo con il ben altrimenti straordinario film di Yorgos Lanthimos, il quale avrebbe meritato comunque qualcosa di più sostanzioso.
Ma Sélection officielle a parte, se nemmeno la rassegna di Un Certain Regard (vinta dall'ottimo Lerd dell'iraniano Mohammad Rasoulof) ha particolarmente brillato, il cinema più bello a Cannes quest'anno si è visto in quella garanzia di qualità e di genuina cinefilia che è la Quinzaine des Réalisateurs: qui il cinema francese ha dimostrato di godere di salute più che ottima, sfoderando tre pezzi da novanta: i due vincitori ad ex-aequo Un beau soleil intérieur di Claire Denis, e L'amant d'un jour di Philippe Garrel, e lo scatenato musical elettronico sull'infanzia di Giovanna d'Arco Jeannette, di Bruno Dumont. Cui vanno aggiunti Faces Places, il toccante documentario di Agnès Varda, e Barbara, insignito in Un Certain Regard con il “Prix de la Poésie du Cinéma”, di Mathieu Amalric. E francesissimo va considerato il nuovissimo Roman Polanski, presentato fuori concorso, D'après une histoire vraie, insinuante e hitchcockiano thriller psicologico che confonde le acque del confine tra realtà e finzione... Alla Quinzaine, gran bella figura abbiamo fatto anche noi italiani, con il piccolo grande film anti-camorra L'intrusa di Leonardo Di Costanzo, accolto al termine da un'ovazione commossa ed entusiasta, e il primo lungometraggio di Roberto De Paolis, Cuori Puri, attualmente in programmazione nelle nostre sale. Altro vanto italiano è il premio per la migliore attrice di Un Certain Regard andato alla nostra Jasmine Trinca, protagonista di Fortunata, diretto da Sergio Castellitto.

Come vedete, il banchetto era abbondante e, a saperla cercare, di grande qualità. Amareggiano e stupiscono, perciò, le sciocche critiche di chi, pure spesato di vitto e alloggio dalle proprie testate, ha evidenziato la modestia del concorso. Il Festival è e resterà sempre il miglior paradiso per chi ha sete di grande cinema, dove funziona come con il vino: se la grandine ha danneggiato i vigneti, l'annata non sarà particolarmente eccellente; ma il serio e costante lavoro di viticoltori e produttori non mancherà di dare ugualmente i suoi frutti, anche se in misura più contenuta. L'anno prossima andrà meglio. Cin cin(ema).



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