Dopo il film su Internet, persistiamo con Herzog, e, alle nove di mattino, assieme a “una delle sarde promesse della nuova critica cinematografica non solo sarda”, andiamo a vedere Into the Inferno, il nuovo film di Werner Herzog sui vulcani, (dove non si parla però né del Vesuvio, né dell'Etna, e soprattutto non si parla di Stromboli e di Ginostra e questo è gravissimo).
Il film è bello, bellissimo, lo danno su Netflix ed è da vedere assolutamente.
“Herzog va alla ricerca dei vulcani - inizia Mazzino - ma anche di chi ci vive intorno e di chi ‘parla' con essi. Trova popolazioni e riti e la natura che è qualcosa dal quale le persone si emancipano ma non del tutto. In Italia, forse in Europa, ormai si crede che la natura sia il contenitore di prodotti biologici o la location per staccare dallo stress quotidiano. Qualcosa da usare e, nella migliore delle ipotesi, da preservare. Non che questo sia peggio o meglio, semplicemente c'è dell'altro e a Herzog, in questo film, interessa, come sempre, questo altro. L'uomo e la natura nel loro possibile idillio e nel loro essere in conflitto”.
Il film sui Vulcani, infatti, è film sul valore che queste montagne hanno per le comunità che ci vivono a ridosso. Dei coreani del Nord e della montagna Baitou (dove, si dice, sarebbe nato il leader supremo Kim Jong-il), del vulcano di Guadalupe, la Soufrière, già protagonista di un altro documentario di Herzog dove si raccontava la storia dell'unico uomo che non volle lasciare l'isola quando, nel 1976, fu ordinata l'evacuazione. E poi si parla di vulcani e comunità in Antartide, in Etiopia o in Islanda e di tante altre storie, come quella del vulcano Sinabung, di un archeologo che cerca frammenti di ominidi in enormi deserti, o di una coppia di fotografi, Katia e Maurice Krafft morti, per essersi avvicinati troppo al fuoco durante l'eruzione del vulcano Unzen. Storie, che raccontano di questo rapporto tra la vita e la morte, che raccontano il fuoco che è un mare ma non di acqua.
Mazzino dice che Herzog è ben piantato al suolo, e non solo per il dialogo con il partner in crime di questo film, in cui i due si confessano la paura e la consapevolezza che esiste un limite da non oltrepassare.
Il partner in crime in questione è Clive Oppenheimer, rinomato vulcanologo ritrovato da Herzog dopo Encounters at the End of the World. E la “giovane critica sarda che è una promessa ma anche un po' già una realtà”, seduta in sala tra noi due, ci fa subito notare che lo scienziato riveste il ruolo che normalmente sarebbe stato di Herzog, perché intervista non solo gli altri vulcanologi, ma anche gli indigeni che spiegano culti e credenze modellati dalla presenza del vulcano. Interviene, cioè, proprio sulla materia di cui è fatto questo film, su tutto. Perché questo è un film che parla di materia, e di fuoco che della materia si nutre. E che tutto trasforma e uccide.
“La morte - pensa Mazzino - è una cosa che va presa sul serio proprio perché si crede nella vita. E se è vero che le suggestioni sono tante e rimandano a qualcosa di spirituale, il film è costruito sulla materia, sugli elementi, sul fuoco e sulla terra. Il mistero e il senso d'incertezza sono anch'essi qualcosa di materiale. Sono quella stessa terra e quello stesso fuoco che si agitano, che rendono il nostro percorso instabile, accidentato. Sotto i nostri piedi tutto è in movimento, ma dobbiamo guardare in alto per evitare che ci cada addosso la lava. Dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi perché là, sotto di noi, si potrebbero aprire delle voragini, dei baratri. Ma dobbiamo anche guardare in alto”.
Guardare in alto e spostarsi di due metri per evitare la lava, si dice nel film, è uno dei modi per sopravvivere nel caso ci si trovi in mezzo a un'eruzione. E in alto, penso io, dicevano di guardare anche alcuni sciamani per trovare le persone appena morte. In alto guardavano anche gli abitanti delle isole vulcaniche di Vanatu, vicino all'Australia, che venerano come Dio un tale che si chiama John Frum (o From). John Frum, protagonista tra l'altro di un film portoghese presentato al Festival di Torino lo scorso anno (John From di João Nicolau), dovrebbe essere stato un semplice soldato americano, paracadutato su queste isole durante la seconda guerra mondiale, e considerato dalla popolazione come il Messia. È questo uno dei cosiddetti culti del cargo, culti che si svilupparono a partire dalla seconda guerra mondiale. Cioè in pratica: popolazioni primitive si vedono arrivare coi paracaduti uomini e cibo, non capiscono niente e pensano subito a Dio.
Di Frum e di quel vulcano, parlano anche Herzog e Oppenheimer, e io mi chiedo se fra tutte le religioni e le credenze delle quali parlano loro, o delle quali abbiamo sentito parlare noi, tra tutte le ipotesi sulla vita e sulla morte che noi conosciamo, io mi chiedo perché magari non potrebbe essere che proprio questa sia quella vera.
Mazzino mi cita subito una serie televisiva, The Good Place, che in Italia non è ancora arrivata, ma dove all'inizio c'è proprio questa situazione: una ragazza morta va in una specie di Paradiso, e quello che per noi dovrebbe essere San Pietro le dice che i cristiani ci hanno preso solo per il 5%, e così i mussulmani, gli ebrei e i buddisti e gli induisti, ma anche che c'è un tipo, uno che si riempiva di canne, che completamente sballato ha beccato il 95% delle cose che accadono dopo la morte, un mito di cui in quella specie di Paradiso, che paradiso non è, conservano un poster!
Mentre io continuo a sottolineare la deriva spirituale del film (e della filmografia totale di Herzog), Mazzino si concentra sul modo in cui il regista tedesco stia sulla Terra, e di come giri in tutti i sensi. “Herzog, in questo film, percorre chilometri, accoglie storie, apre tanti incisi, a un certo punto cambia addirittura il soggetto che diventa: un regista in Corea del Nord. E i vulcani restano sullo sfondo. E noi siamo con lui, nella fermata della metropolitana coreana a chiederci cosa possiamo fare in quel luogo del tutto ignoto, dove ogni evento sembra accadere in forma di autorappresentazione di un popolo, e cosa farà lui, il nostro conduttore che, peraltro, a sua volta, si fa condurre dagli eventi. Perché è questo uno dei punti di forza di Herzog, conduce e si lascia condurre. Si avvicina e poi si allontana e, nel far questo movimento, prova e fa provare un senso di vertigine. Quel senso di attrazione per il sublime di kantiana memoria, per un bello terrificante, che è troppo più grande di noi e che ci sovrasta”. Mazzino questa storia della vertigine la dice con cognizione di causa, visto che è cosa di cui lui soffre e che prova anche affacciandosi semplicemente dal primo piano di un palazzo o guardando un bicchiere sul bordo di un tavolo. E quello di cui ha paura, credo io e crede lui, è di essere attirato da quel vuoto.
Su questo interviene anche la “promessa quasi realtà sarda della critica ma non solo”, che riporta l'astratto al concreto e lo rivolta nuovamente aggiungendo che per lei Herzog si fa condurre soprattutto dagli scienziati, che sono loro i suoi "veri poeti", come nella poesia di Ginsberg che dice che “scientist alone is true poet he gives us the moon he promises the stars he'll make us a new universe if it comes to that”, perché studiando e analizzando il mondo – continua Giovanna Branca, che è lei la sarda di cui parlavamo - sono in grado di svelare misteri e risalire a eventi lontanissimi nel tempo, quelli, per esempio, di cui si occupa l'archeologo nel deserto, che assembla pazientemente le ossa di un ominide come fossero pezzi di un puzzle.
Mettere insieme le ossa per ricostruire un uomo che poi permetta di ricostruire una umanità. L'archeologo, il vulcanologo e il regista mirano alla stessa meta. “Un vulcano in eruzione, un tornado, un terremoto ma anche un branco di orsi – conclude Mazzino - attraggono per la loro potenza, imprevedibilità, e per il fatto che ne saremmo travolti. Sì, forse qui siamo di fronte alla spiritualità, al Dio onnipotente sotto forma di elemento naturale. Credo però che Herzog racconti della distanza che intercorre tra lui/noi e l'oblio, che è come chiedersi chi siamo noi che esistiamo e che scompariamo chissà dove”.
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