martedì 31 dicembre 2019

Star Wars: l'ascesa di Skywalker

«Rey...Rey Skywalker!»
(Rey)

Sono solo imitazioni

Ogni volta, al termine di un viaggio breve o lungo che sia, sono molte le emozioni che si accavallano dentro di noi: soddisfazione, rimpianto, felicità, tristezza…
Anche la nuova trilogia di Star Wars, la “trilogia sequel” volge a conclusione con il terzo episodio diretto da J. J. Abrams – il nono, come da numerazione. Ma stavolta, più che sentirsi orgogliosi e compiaciuti di aver accompagnato l'intrepida Rey (Daisy Ridley) e i suoi compagni di ventura, il buon Finn (John Boyega) e il guascone Poe Dameron (Oscar Isaac che, è doveroso precisarlo, non sarà mai all'altezza del suo iconico “predecessore” Han Solo/Harrsion Ford, per tutta una serie di motivi che pare quantomeno inutile star qui a elencare…) verso lo scontro finale contro l'oscuro Primo Ordine dei Sith, quel che resta è una manciata di primigena e sottocutanea insoddisfazione e nulla più. Come per un piatto all'apparenza prelibato e troppo decantato, ma alla fine insipido e scotto.

Eppure il precedente Episodio VIII – Gli ultimi Jedi si era spinto con coraggio e aveva riagguantato quell'epica vibrante con la quale George Lucas ci aveva ammaliato con la trilogia originale, riuscendo a sfruttare con una notevole convinzione degli strumenti/personaggi a disposizione, l'atto finale della vita di un redivivo Luke Skywalker, protagonista assoluto di una lunga sezione finale del film più che convincente e appassionante.

Stavolta Abrams, a cui spettava il compito di sottostare per forza di cose alle esigenze produttive di casa Disney, è stato costretto a premere il piede sull'acceleratore, perseguendo l'obiettivo ultimo di terminare il viaggio, di concludere quello che, anche in un'ottica revivalista, è cominciato ad apparire come un'epos stanco e stantìo. Questa nuova trilogia galattica ha dimostrato, con Episodio IX, di non avere più nulla da dire, rinunciando quasi interamente anche al proprio dovuto canto del cigno.

Perché no, resuscitare l'odiato e perfido Palpatine solo per giustificare la repentina dipartita del Leader Supremo Snoke, personaggio vuoto e disgregato dall'avvicendamento in cabina di regia di più autori, non in grado di elevarlo a nuovo villain di rango primario e totalizzante, non ha sortito lo sperato effetto a sorpresa a cui si mirava, finendo col destabilizzare ulteriormente una (nuova) serie già precaria per compattezza narrativa e concettuale; al contrario, il neo-rapporto di parentela tra Rey e l'oscuro Palpatine ha prodotto un effetto specularmente contrario a quello che si desiderava, fagocitando svilimento e accertando, stavolta senza alcun dubbio, ma con aspra delusione, la natura prettamente commerciale di questa nuova sequela di film legati al culto lucasiano.

Se la seconda trilogia, seppur accompagnata da molti difetti strutturali, aveva osato nel creare un contesto adibito a lungo flashback di quanto ammirato e amato nella trilogia originale, si sperava che, per lo meno, questa nuova trilogia indicasse un punto di rottura con i fantasmi del passato, accompagnando sì le nuove generazioni verso un passaggio culturale epocale – con tutti i rimandi e i collegamenti, ben accetti, con gli idoli di un tempo – ma ponendo, questo sì, le stesse di fronte a nuovi dilemmi, nuove minacce dallo spazio profondo.

Invece sono cambiati gli interpreti, ma il succo della questione è rimasto sempre lo stesso: Rey ha preso il posto del maestro Luke Skywalker, fronteggiando “la famiglia”, così come il compianto Jedi fece col padre Vader; Kylo Ren (Adam Driver, unica nota veramente lieta dell'intero carrozzone) ha semplicemente indossato i panni del leader oscuro, ricalcando le orme e il pentimento del suo “predecessore” Darth Vader, così come Poe Dameron ha provato – inutilmente e in modo alquanto stucchevole – a fare il verso al travolgente Solo/Ford, in un vortice inesauribile di accadimenti e intrecci già sbrogliati, assimilati e ora riproposti con la leggerezza e la noncuranza di un bugiardo che si finge sincero solo per catturare l'attenzione di chi ascolta.

Una totale incapacità di approfondire la storia, percepita già dalla banalità di dialoghi slavati, che hanno contribuito costantemente alla cancellazione di ogni tentativo di divertire lo spettatore; così come la montante consapevolezza di essere degustatori di una minestra riscaldata più volte, abbia disintegrato ogni speranza di lasciarsi travolgere da un rinnovato senso di stupore.

Tutto già visto, tutto già vissuto. Se non per quell'unico barlume di luce, quella briciola di speranza a cui Abrams e compagnia avrebbero dovuto aggrapparsi con tutte le loro forze: quel finale radioso, quella presa di coscienza da parte della vittoriosa Rey, che si fregia del nome di Skywalker e lo fa suo. Un'epilogo splendido nella sua brevità, di gran lunga più profondo e sincero rispetto a tutti gli isterici e inutili merletti intessuti nelle due e più ore precedenti. Un'epilogo che non basta, certo, a salvare un clamoroso buco nell'acqua.

Al termine di questo viaggio la delusione accumulata è forse troppa da digerire. Ma, come ci ha insegnato la principessa Leia – e quel gioiello inscalfibile che fu A Star Wars Story: Rogue One – c'è sempre spazio e tempo per una nuova speranza…

(Star Wars: The rise of Skywalker); Regia: J. J. Abrams; sceneggiatura: J. J. Abrams, Chris Terrio; fotografia: Daniel Mindel; montaggio: Maryann Brandon, Stefan Grube; musica: John Williams; interpreti: Carrie Fisher, Mark Hamill, Adam Driver, Daisy Ridley, John Boyega, Oscar Isaac, Anthony Daniels, Naomi Ackie, Domhnall Gleeson, Richard E. Grant, Lupita Nyong'o, Keri Russell, Joonas Suotamo, Kelly Marie Tran, Ian McDiarmid, Billy Dee Williams; produzione: Lucasfilm, Bad Robot Productions; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: U.S.A., 2019; durata: 142'



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