Le prime due scene di Museo impostano quello che accadrà nelle successive due ore. Sullo schermo appaiono, insieme ai titoli di testa, oggetti antichi, statuette di argilla, monili, bracciali, corone, maschere. Si trovano tutti in un museo dove, per archivio, è in corso una sessione fotografica di catalogazione. Un ragazzo è affascinato dalla potenza che emanano gli oggetti, ne percepisce la vibrazione potente del tempo passato, avverte il desiderio di toccarli. È solo l'assistente del fotografo, non può voltare la statuina sul lato senza guanti, viene redarguito dalla vigilanza. Il giovane chiede scusa. Nella scena successiva lo stesso ragazzo, che scopriamo chiamarsi Juan, sta in camera sua con un amico, Wilson. La stanza è una accozzaglia di oggetti, poster, chincaglierie. Juan si mette il cubo di Rubik sulla testa e chiede all'amico di sparargli, a mo' di Guglielmo Tell, con una pistola giocattolo caricata con proiettili di gomma leggera. Wilson dice che non lo farà, Juan insiste dicendo che è una questione di fiducia, che se lui glielo chiede l'amico deve dimostrare di essere un vero amico e fare come lui gli dice. La diatriba va per le lunghe, Wilson negligente, Juan insistente come una scimmietta impazzita. Alla fine il cauto ragazzo è irretito dalla tiritera del fanfarone e gli spara: sbaglia la mira e prende un quadro sulla parete. Juan urla come un ossesso che Wilson è pazzo, che poteva prenderlo in un occhio e renderlo cieco e molte altre lamentele e insulti. Il timido Wilson risponde: “ma me lo hai chiesto tu”. È tutto chiaro, sin da subito: la noia, la giovinezza, il passato che incombe sul presente, sul futuro.
Museo è la “replica” della rapina al Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico recita un cartello nero sullo schermo. Il fatto di cronaca, veramente accaduto nella notte della vigilia di Natale del 1985, tratta di quando furono rubati alcuni dei capolavori più preziosi dalla collezione d'arte Maya, in barba ai vigilanti presi a festeggiare la natività cristiana. È una storia piccola e scombinata, alla “Soliti ignoti”, che nasconde tra le pieghe del racconto la Storia con la esse maiuscola. Juan e Wilson (interpretati da Gael García Bernal e Simon Russell Beale), due bravi ragazzi della classe media messicana, fanno un sogno più grande di loro: entrare in possesso, per il puro gusto di possederli, di oggetti archeologici di valore inestimabile della cultura azteca, maya, inca, del Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Le due ore di film seguono la progettazione, la messa in atto, il tentativo di vendere la refurtiva del furto più ardito e fortunato.
Una banda degli onesti, due ragazzi svogliati e demotivati dalla vita: provocatore e furbetto Juan, bugiardo in famiglia con grandi e piccini (clamorosa la sera della vigilia, prima del furto, la rivelazione del luogo dove si trovano i regali ai cugini più piccoli); Wilson figliol prodigo con padre in fin di vita di cui si prende cura da solo. Entrambi vergini nell'attività criminale, Juan durante un lavoretto casuale si ritrova al Museo ad assistere un fotografo che immortala ogni oggetto fuori dalle teche di protezione: questo lo stimola a congegnare un modo per entrarne in possesso la notte di Natale mentre tutti saranno intenti a fare altro. La famiglia può essere il luogo delle bugie e Juan ne raccoglie volentieri il testimone mentendo a tutti tranne alla sorella più giovane.
Lo stile visivo suggestiona lo spettatore tra preziosi esemplari archeologici, meraviglie naturali messicane, scavi, squarci di mare incredibile: i due ragazzi sperduti inseguono un miraggio di ricchezza che non diverrà realtà (il collezionista inglese li mette di fronte alla realtà: “sono pezzi inestimabili che non valgono nulla: nessuno comprerà mai la refurtiva”). Piano piano Juan comprende l'inutilità della sua azione, il naufragio della costruzione macchinosa del colpo perfetto, la vacuità di aver immaginato tale piano. Dopo ricerche, viaggi on the road, ubriacature con la spogliarellista danzatrice del ventre, potente immaginario pornografico del ragazzo, tutto riporterà i due ladruncoli da strapazzo al punto di partenza. “Il perché si fa una cosa lo conosce solo chi la fa”, un mantra in voce fuori campo che scandisce la pellicola diventa il senso intero della storia: i due protagonisti non sanno perché hanno compiuto l'azione criminosa, non lo hanno mai saputo, mai lo sapranno. Eppure l'hanno fatta. Hanno rubato in un museo dove andava meno gente di quando le opere da vedere erano assenti: hanno avuto un merito e invece dovranno pagare. Lo stile in questo film è tutto: l'uso della musica, della voce fuori campo, del montaggio, dei movimenti di macchina tendono a costruire una storia che ha del fantastico, del surreale, dell'onirico eppure è realistica, addirittura ispirata a un fatto realmente accaduto. Ma chi lo sa perché si compie un'azione, perché si fa un film? Talvolta nemmeno l'autore. In questo caso il regista attua il suo percorso iniziatico, il suo viaggio dell'eroe in una storia sghemba, come un triangolo a cui è stato morso un angolo, in cui l'orologio torna a girare col sacrificio di una lancetta che si è spezzata. Museo distrae e rallegra, emoziona senza turbamento, fa empatizzare lo spettatore con personaggi non edificanti, non malvagi, non costruttivi: ragazzi sperduti che, come Peter Pan, non vogliono, o non hanno mai imparato, a crescere.
(Museo); Regia: Alonso Ruizpalacios; sceneggiatura: Alonso Ruizpalacios, Manuel Alcalá; fotografia: Damián García; montaggio: Yibran Asuad; musica: Tomás Barreiro; interpreti: Gael García Bernal, Simon Russell Beale, Lynn Gilmartin, Alfredo Castro; produzione: Manuel Alcalá, Gerardo Gatica, Ramiro Ruiz; origine: Messico, 2018; durata: 128'
from Close-Up.it - storie della visione https://ift.tt/2RkDxNp
Nessun commento:
Posta un commento