Almeno dal 1932, l'anno in cui Edmund Goulding trasse dal romanzo della scrittrice ebrea viennese Vicki Baum un celebre film presentato alla prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e premiato con l'Oscar (Grand Hotel), il cinema ha fatto dell'albergo uno dei suoi luoghi privilegiati, soprattutto là dove si tratta di raccontare, più o meno in parallelo, la storia di più soggetti, là dove quindi prevale una struttura multicentrica e poliprospettica piuttosto che la concentrazione su una vicenda singola in cui vige una drammaturgia diciamo così monodirezionale. Bad Times at the El Royale che in italiano è stato tradotto 7 sconosciuti a El Royale, diretto e sceneggiato da Drew Goddard, che torna alla regia sei anni dopo The Cabin in the Woods (2012) presenta tutti gli elementi tipologici del film ambientato in un hotel, procedendo per lente agglutinazioni: prima due personaggi (un sedicente prete e una cantante), poi il terzo (un sedicente venditore di aspirapolvere), poi il quarto (che è in realtà il concierge), poi la quinta (una donna, a giudicare dal vestiario, hippie o tardo hippie) che, tuttavia, più tardi scopriremo non essere giunta sola, bensì con la sorella (che dunque sarebbe il sesto personaggio). Per vedere arrivare il settimo che metterà in moto i non pochi avvenimenti finali bisognerà invece aspettare l'ultimo terzo del film. Al poliprospettivismo qui virato peraltro in una riconoscibilissima e per certi aspetti manieristica tinta tarantiniana (vedi sotto), Goddard aggiunge un aspetto ulteriore riconducibile a un'altra sottocategoria, altrettanto celebre, di film di hotel, dove l'hotel non è solo (più) il luogo di uno svariato campionario di umanità, ma è un luogo maledetto, un haunted house. Anche qui, nella storia del cinema, di esempi ce ne sono innumerevoli che gli hotel (motel) si chiamino Bates oppure Overlook. El Royale, di cui al titolo, è queste due cose insieme – luogo del molteplice e luogo (non luogo) maledetto – con una variabile fantastica in più, presenta la caratteristica di trovarsi esattamente al confine fra lo stato della California e lo stato del Nevada, da una parte ci sono i superalcolici, dall'altra ci sono le slot machines, una striscia rossa – la striscia di confine – corre in verticale fra le due parti dell'hotel che, lo si capisce fin dall'inizio, ha visto tempi migliori, molto migliori. Non si capisce invece se stia in Nevada o in California, o forse proprio a cavallo fra i due stati, un oggetto che fungerà da collante di tutte le vicende (comprensive di numerosi e articolati antefatti) che verranno raccontate nel film, vale a dire un juke-box Wurlitzer che nel corso della pellicola suonerà almeno una quindicina di più o meno celebri canzoni di un repertorio soul, R&B e rock che va dai Mamas and Papas, ai Deep Purple, dagli Isley Brothers ai Four Tops, più o meno risalenti all'epoca in cui il film è ambientato, siamo nel 1969 – un soundtrack diegetico, cui peraltro va aggiunta una significativa dose di musica extradiegetica curata dal celebre Michael Giacchino. Tarantino, i Coen e qua e là forse anche Lynch ammiccano in questo film a più non posso; un film dunque che si presterebbe a una gara fra cinefili per individuare tutte le potenziali citazioni. Il già significativo gradiente di postmodernismo è ulteriormente accentuato dal fatto che, in fondo, i sette personaggi in questione potrebbero essere visti, ciascuno, come titolari, rappresentanti di un genere o sottogenere del cinema americano: dalla spy story (scopriamo ben presto che le camere hanno tutte uno specchio cieco che permette di riprendere con apposita camera da presa le scene, spesso compromettenti che vi si svolgono e che vedono protagonisti e dunque potenzialmente ricattabili personaggi celebri della scena pubblica) al film sul Post Traumatic Stress Disorder bellico, nella fattispecie chiaramente si parla del Vietnam, dato che, come si diceva, il film si svolge a cavallo fra gli anni '60 e gli anni '70, dalle conseguenze di un potenziale big caper movie, il film su un colpo grosso, con – in questo caso – il reduce da una decennale prigionia che vuole, a mo' di magra e tradiva compensazione, quanto meno riprendersi il malloppo, dal musical – tutto nelle mani, anzi nella voce dell'esordiente Cynthia Erivo, celebre e apprezzata cantante di Broadway - per arrivare a ulteriori varianti, citazioni che, se menzionate, ci costringerebbero a rivelare momenti importanti della trama che lasceremo invece scoprire agli spettatori. Al netto di quel sostanziale manierismo che si diceva, di una sceneggiatura che si compiace qua e là dell'inutilmente complicato e di un eccesso di ri-narrazioni da più punti di vista, il film, forse nell'insieme un po' troppo lungo, soprattutto il finale, si vede volentieri, è divertente, avvincente e ben recitato. Spicca fra tutti, inutile dirlo, Jeff Bridges nella parte di Father Daniel Flynn.
(Bad Times at El Royale); Regia: Drew Goddard; sceneggiatura: Drew Goddard; fotografia: Seamus Mc Garvey; montaggio: Lisa Lassek; musica: Michael Giacchino; interpreti: Jeff Bridges (Father Flynn), Cynthia Eriwo (Darlene Sweet), Dakota Johnson (Emily Summersping), Jon Hamm (Seymour Sullivan), Cailee Spaeny (Rose Summerspring), Lewis Pullmann (Miles Miller); Chris Hemsworth (Billy Lee)produzione: TSG Entertainment, Goddard Textiles; distribuzione: 20th Century Fox origine: Usa 2018; durata: 141'.
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