Di fronte a un film di bellezza così spaventosa non c'è bisogno di tante parole. Phantom Thread, o, in italiano, Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, di gran lunga il migliore tra i film che si contenderanno l'Oscar, il prossimo 4 marzo si porterà probabilmente a casa qualche statuetta ‘minore', ma ormai ha già guadagnato un posto nella Storia del Cinema. Arrivato da noi con molto ritardo rispetto all'uscita americana, è stato inseguito in ogni dove dai voraci cinefili innamorati di uno dei rarissimi registi ‘cult' oggi in attività, e al di là delle anteprime stampa allestite con largo anticipo sull'uscita in sala (chi scrive lo ha già visionato un mese fa proprio nell'occasione di una press preview), c'è chi non ha resistito alla tentazione di scaricarselo illegalmente dalla rete, in una copia nemmeno tanto malaccio per qualità audio e video. Tutto questo non ha fatto che accrescere, grazie al tam tam che ne è conseguito sui social, l'attesa spasmodica degli integerrimi che finalmente avranno ora la possibilità di goderselo sul grande schermo, possibilmente nella sua imprescindibile versione originale: la voce di Daniel Day-Lewis, tra i mille punti di forza del film, ne costituisce senz'altro un irresistibile motivo di fascinazione, che nessun doppiatore, per quanto bravissimo - ma dove sono finiti? - potrebbe riuscire ad eguagliare (come se il partner che ci rapisce il cuore una sera ci abbracciasse e iniziasse a sussurrarci all'orecchio dolci parole d'amore con la voce …di un altro!). Suonerà strano partire dalla voce dell'attore protagonista per tessere le lodi di un film così visivamente sfarzoso e magnifico, eppure quella cura ossessiva e maniacale che Paul Thomas Anderson ha impiegato nella composizione e nella costruzione della sua nuova opera, e quella certosina pazienza da entomologo con cui Reynolds Woodcock, couturier dell'High Society della Londra degli anni '50 - vagamente ispirato a Cristóbal Balenciaga - protagonista di Phantom Thread, disegna, crea, cuce e ritocca i suoi splendidi abiti per nobildonne e principesse, trovano nell'insinuante vocina tenorile di Daniel Day-Lewis, modulata con la monocordia di un sacerdote custode dell'eleganza e del Gusto con la G maiuscola (e non, dunque, dei ‘gustibus'), la materializzazione in termini sonori necessaria perché questo film meraviglioso investa lo spettatore con ondate sensoriali in grado di stimolarne reattività percettive solitamente non coinvolte nel corso di una normale visione cinematografica. Con la stessa intensità di un taglio di Lucio Fontana, squarcio che non rivela il mistero al di là della tela ma che sollecita il nostro sgomento di ignari testimoni dell'assurdità del mondo, il filo ‘nascosto', perché invisibile, che innerva un abito manifesto di perfezione estetica come quelli confezionati da Woodcock, ci avvince, ci stringe centimetro dopo centimetro ricucendo con precisione chirurgica le ferite aperte dell'anima per affidare al fulgido sembiante di un vestito destinato a contenere ed esaltare una statuaria e leggiadra bellezza muliebre la custodia dei dolori più intimi, il ricordo degli affetti perduti, l'afflato di un amore sognato ma mai trovato forse per paura che potesse scardinare e squassare dalle fondamenta un'intera architettura di convinzioni ritenute solide e incrollabili. Una fuga nella perfezione dell'Arte, quella di Reynolds Woodcock, declinata nella ripetitività dei gesti quotidiani, dall'infilarsi i calzini all'allacciarsi le scarpe, dal pettinarsi allo zuccherare il tè, in una rigida griglia di consuetudini cui aggrapparsi saldamente per garantirsi l'equilibrio necessario a preservare limpida e intatta la qualità di una creatività tanto ambita e riconosciuta.
E' in questa ossessione, tutelata e vigilata nella cassaforte dell'atélier, la cui combinazione è nota solo a Cyril (superba la prova dell'attrice Lesley Manville, probabile candidata ‘forte' all'Oscar per la migliore non protagonista), fedele sorella di Reynolds e completamente votata alla gestione millimetrica della vita pubblica e privata del fratello, è in questa ossessione, si diceva, che imprevisto e forse inopportuno si inserisce l'Amore, quel dio Eros che sovverte ogni ordine e manda all'aria qualsiasi castello, rivelandone spesso la malcelata fragilità. Alma, che non a caso in latino vuol dire ‘nutrice', 'che fa crescere', interpretata con nordico e femminile vigore dall'attrice lussemburghese Vicky Krieps, irrompe nella vita di Reynolds Woodcock sedotto dalla sua graziosa goffaggine di cameriera a servizio in una locanda fuori città. Lui ne resta quasi stordito, e concepisce per lei un'attrazione che dopo l'incanto e la magia degli inizii si rivela ben presto dettata dall'attitudine capricciosa del geniale egocentrico che intende dominare ogni campo d'azione e mantenere tutto sotto il proprio severo, inflessibile e irriducibile controllo… Di qui prende le mosse il gioco al massacro ordito dalla sensazionale sceneggiatura dello stesso Anderson, che firma anche il soggetto originale, efficace e implacabile congegno a spirale che tutto risucchia nel vortice scatenato dalla titanica lotta delle due parti in campo: un uomo che vede poco a poco disfarsi e screpolarsi il proprio arido trespolo di arroccate certezze, e una ragazza di campagna pigmalionescamente modificata dal genio per farne la propria musa e modella, che tuttavia resiste per conservare ad ogni costo la propria naturalità e attuare una redenzione speculare a quella di cui viene fatta oggetto…
Immaginate tutto questo illustrato e narrato in termini cinematografici di stupefazione e incanto permanenti, in un bagno di immagini, colori, ambienti e coreografie cinetiche della macchina da presa (maneggiata dallo stesso regista, che ha preferito non accreditarsi come direttore della fotografia nei titoli) che irretisce e regala una costante sensazione di volo sospeso, con la complicità di un montaggio che scandisce a profusione dettagli di lusso, armonia e voluttà di ogni foggia e fattura, e di una colonna sonora curata da Jonny Greenwood che alterna le duttili sonorità tardo-novecentesche della propria partitura originale a brani e canzoni d'epoca e al geniale inserto del primo movimento del Trio op.100 di Schubert, in un gradito intreccio di omaggi cinefili (per Barry Lyndon, Kubrick ne aveva usato il movimento successivo, Andante con moto).
Opera-monumento di ricercata e personalissima autorialità, Phantom Thread, o Il filo nascosto (traduzione italiana letterale, ma piatta e poco evocativa, come il titolo di un romanzetto da vetusta biblioteca per fanciulle), conferma l'assoluta e preziosa rarità dell'occhio di un cineasta tra i maggiori viventi, espressione di una cultura occidentale che estrae da se stessa icone consolidate come ideali platonici da ri-conoscere (tra Rebecca e Vertigo, quanto Hitchcock si annida nella dorata magione di Woodcock…), ammantati di nuove e contemporanee inquietudini, nello splendore di un magistero formale che nasconde, tra le pieghe del dramma che mette in scena (come i messaggi segreti nascosti e cuciti negli abiti di Woodcock), la sua pelle, la sua carne, la sua stoffa, il suo dolore, e, forse, il segreto di una ritrovata felicità.
(Phantom Thread); Regia: Paul Thomas Anderson; sceneggiatura: Paul Thomas Anderson; montaggio: Dylan Tichenor; musica: Jonny Greenwood; interpreti: Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville; produzione: Annapurna Pictures, Focus Features, Ghoulardi Film Company; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA, 2017; durata: 130'
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