Roma, 18 ottobre 2017
Roberto Pedicini, classe '62 e originario di Benevento, inizia l'attività di attore e doppiatore nel 1980 con un percorso artistico che culmina nel doppiaggio di divi dal successo planetario come Kevin Spacey, Javier Bardem, Jim Carrey, Ralph Fiennes, Woody Harrelson e molti personaggi dei cartoni animati, tra i quali Pippo e Gatto Silvestro. Voce straordinaria la sua, “cucita” su ogni personaggio con notevole abilità e sfumature interpretative sempre emozionanti, anche nella narrazione dei documentari. Molti i premi ricevuti per l'attività di doppiatore – come il Leggio d'Oro nel 2016 per il doppiaggio di Kevin Spacey in House of Cards – che ha sempre alternato a quella di speaker radiofonico e pubblicitario e di attore per diversi ruoli in film e fiction televisive.
Lo abbiamo incontrato in una soleggiata giornata autunnale sulla terrazza della Galleria Nazionale d'Arte Moderna, splendido scenario per parlare di cinema, recitazione e spettacolo. E' gentile, sorridente, disponibile e quando parla la voce arriva prima di lui e vibra di passione, evocando un mondo di ricordi cinefili. Insieme abbiamo ripercorso la sua carriera artistica e questo è quanto ha raccontato a Close-Up in una lunga intervista che ha avuto più il sapore di una piacevole conversazione.
A proposito del doppiaggio…
Il doppiaggio è un'arte o una professione?
È una professione e una tecnica. Prima era un nobile artigianato, ora ritengo sia un servizio funzionale all'analfabetismo delle lingue. L'arte crea. Il doppiaggio non crea, riproduce qualcosa: è una nobile reinterpretazione di qualcosa che già esiste in un'altra lingua.
La tua brillante carriera di doppiatore inizia negli anni '80, com'è cambiato il doppiaggio da allora?
È cambiato enormemente perché è cambiata la tecnologia. Sono cambiate soprattutto le figure che compongono il doppiaggio, in particolare i direttori che prima erano dei veri registi di questa professione e si reinterpretava in modo più artistico ciò che veniva fatto in originale. Oggi c'è un lavoro più pedissequo di un processo imitativo sul doppiaggio, ci sono più doppiatori e una scelta, una gamma vocale enorme. Di questo passaggio da allora posso dire che non rimango malinconicamente attaccato al passato: vivo nel presente in un processo di “qui e ora” assoluto per la mia professione, senza pensare o dire: “una volta era tutto meglio”.
Tu insegni doppiaggio in diverse scuole in Italia. C'è grande richiesta per diventare doppiatore e quali consigli dai a chi si avvicina al mondo del doppiaggio?
C'è grande richiesta per i corsi perché c'è molta disoccupazione, ma anche tanto amore per la recitazione. Non ci deve essere una scelta per fare il doppiatore. Il doppiaggio non è altro che una specializzazione del lavoro dell'attore: bisogna prima essere attori. Consiglio sempre di fare un corso di teatro, di recitazione ed eventualmente implementarlo con un corso di doppiaggio; non consiglio mai di seguire il lavoro del doppiaggio fine a se stesso, altrimenti è come dire che è utile solo la voce. La voce è un suono, ma è anche il risultato di ciò che proviamo. Consiglio anche metodo, rigore e solidità perché quello dell'attore è un lavoro faticoso sotto tanti aspetti.
Il doppiaggio ha diversi detrattori, ma anche sostenitori come Abbas Kiarostami che dichiarò: “Aiuta ad avvicinarci al film. I sottotitoli sviano dagli occhi degli attori. Il cinema è immagine non lettura. I cinefili tengono all'originalità, ma cosa lo è? In un film tutto è costruito: le case, i vestiti, gli amori”. Un tuo commento su questa affermazione?
Il processo recitativo è un processo a 360 gradi e la voce è una diretta conseguenza di ciò che un attore prova nella scena. Credo, quindi, che il doppiaggio sia un nobile tradimento che rende fruibile un film. Sono d'accordo con la dichiarazione del regista iraniano: il sottotitolo è peggio del doppiaggio perché è una sintesi del dialogo, tradimento maggiore della parola tradotta. Un buon doppiaggio è essenziale per la comprensione dei sottotesti dell'interpretazione, accessibili solo se si ha una padronanza della lingua originale. Sicuramente si perdono gli accenti, le sfumature di una lingua, ma è possibile cogliere gli aspetti recitativi di un attore…se è un buon doppiaggio, fatto con cura e attenzione, cose che oggi si sono smarrite perché si fa tutto di corsa per risparmiare.
Tu hai incontrato a Londra Kevin Spacey, che ricordo conservi di questo grande attore?
L'ho incontrato a una serata di gala, dopo un'anteprima teatrale dove c'era il gotha degli attori inglesi. Quando mi ha visto ha esclamato: “Hello, you are my alter ego!!” e mi ha abbracciato. Mi ero preparato qualche domanda da fargli, invece ha cominciato lui a fare domande a me. Quando gli ho detto che doppiavo altri attori, come Jim Carrey, mi ha chiesto, con la sua tipica ambiguità, chi avrei doppiato in un film interpretato da entrambi. “Naturalmente te!”, ho risposto…si è messo a ridere, ci siamo abbracciati e salutati. Il mio ricordo di lui? Un uomo che accende il carisma con una potenza irradiante, che possiede l'irradiazione dell'attore di cui parlava Stanislavskij. Credo che in tutte le professioni – non solo quella dell'attore o del doppiatore – sia necessario accendere il carisma per essere guardati.
Il mestiere dell'attore
Doppiare è recitare nell'ombra. Per chi, come te, inizia il percorso artistico come doppiatore, è poi facile, immediato recitare non solo con la voce e imporsi come attore? Quali sono le tue aspirazioni in questo senso?
Non mi sono mai imposto come attore. Il lavoro dell'attore l'ho scelto da pochi anni e ho rivoluzionato la mia vita negli ultimi tre anni, mi sono messo in discussione perché ho capito che mi mancava una grossa parte facendo solo il doppiaggio. Mi sono rimesso a studiare nel laboratorio di recitazione di Alessandro Prete, attore, ma soprattutto coach di riferimento. Ho capito l'urgenza di far vivere tutto me stesso - psiche, emozioni, voce e corpo – nel momento in cui ho cominciato a migliorare tutto di me e mi sono accettato. Le mie aspirazioni come attore? Lavorare! Mi piacerebbe lavorare con Paolo Sorrentino, regista visionario che adoro perché ha cose da dire e rappresenta storie in modo molto particolare.
Nella tua attività di attore quali metodi di recitazione segui o preferisci: Stanislavskij, Brecht, Strasberg, Chubbuck?
Stanislavskij e Strasberg, come imprinting generale, rappresentano il mio percorso. Il metodo di Ivana Chubbuck, e anche quello di Alessandro Prete, mi ha fatto comprendere che il lavoro dell'attore oggi è molto più pragmatico. La continuità della qualità la possono dare solo lo studio, il rigore e l'allenamento che consentono a un attore di presentarsi al cospetto di un regista e aprire all'occorrenza qualsiasi cassetto delle emozioni interpretative. Il processo di immedesimazione è importante ma non è necessario portare il personaggio “a casa” per interpretarlo. Credo nel talento naturale, ma non credo che la genialità sia data solo dalla sregolatezza che può regalare il plauso di un'occasione, mentre il metodo e lo studio danno all'attore la sicurezza di una prestazione eccezionale sempre e ad alto livello, senza essere in balia delle emozioni di un momento. Si può perdere il controllo, ma in modo guidato.
Sei stato coprotagonista, accanto a Vinicio Marchioni, del pitch trailer Adriatica di Carmine Bucci, presentato al Trailers FilmFest. Vuoi dirci qualcosa di questo progetto?
Il teaser trailer è arrivato secondo e ha raggiunto quarantamila visualizzazioni in rete. E' un progetto interessante sulla malavita della costiera adriatica che parte dalla Puglia e arriva fino in Abruzzo con implicazioni con i paesi dell'Est sulle sofisticazioni del cibo: una malavita mai rappresentata in Italia. Sono stati scritti il libro e la sceneggiatura di dieci puntate della serie. Al momento siamo in cerca di produzione.
Quale genere di film prediligi e quali sono i tuoi registi preferiti?
Mi piacciono i registi che mi permettono di vedere cose a diversi livelli in modo che, quando rifletto sul film che ho visto, comprendo qualcosa di nuovo e, rivedendolo, ritrovo quello che prima non avevo visto o un'emozione che non avevo provato. Mi piacciono Stanley Kubrick, Milos Forman e Cristopher Nolan e come registi nazionali apprezzo, oltre Paolo Sorrentino, Giuseppe Tornatore, Matteo Garrone, Stefano Sollima e Gabriele Salvatores con cui ho avuto modo di lavorare ed è una persona molto dolce.
Radio, che passione!
Da Jack Folla e Alcatraz, cult radiofonico anni '90 di Rai Radio2, a Bob Revenant e l'Arca dell'Arte e del libero pensiero su Radiofreccia, emittente radiofonica nata un anno fa che trasmette musica internazionale. Raccontaci qualcosa del ritorno in radio e del tuo programma che sta riscuotendo un grande successo.
La radio al momento prende totalmente il mio cuore: è l'amore che sto vivendo! Tutti noi di Radiofreccia abbiamo collaborato con Lorenzo Suraci a realizzare il suo progetto radiofonico, non percepiamo grossi pagamenti, ma facciamo tutto con passione…il denaro non è sempre importante. A Radiofreccia non sono arrivato da sconosciuto, ho portato il mio know-how, ma ho ricominciato un altro aspetto della mia professione e vivo la radio come una sorta di improvvisazione attoriale ed emotiva. Ciò non vuol dire fingere: in radio sono totalmente me stesso e porto le emozioni delle mie giornate facendole vivere rispetto ai diversi temi che propongo ogni sera e sui quali gli ascoltatori scrivono molti messaggi. Non sono un DJ puro, a volte sbaglio l'intro e parlo sulla voce dei cantanti, ma gli ascoltatori mi “perdonano” perché entrano in sintonia con me, con il tema di cui parliamo. L'empatia che si crea tra me e il pubblico è il motivo del successo di questo programma a cui mi dedico con metodo e passione, studiando e approfondendo gli argomenti che dovrò trattare in trasmissione. Gli ascoltatori percepiscono la mia passione e mi ascoltano con attenzione, anche al di là della musica. Il senso che ho voluto dare al mio programma, scegliendo il nome Arca dell'Arte e del libero pensiero, è quello di preservare idealmente le cose belle dalle brutture del mondo e portarle in radio. Perché la radio è comunicazione, cultura, parola…è stare insieme, tenersi compagnia.
Qualcosa di personale…
Recentemente hai ricevuto una benemerenza civica dal Comune di Pescara, la città nella quale hai vissuto prima di trasferirti a Roma e dove sempre fai ritorno. Cosa ha significato il riconoscimento istituzionale dei tuoi meriti artistici?
Partiamo dall'assunto che a me piace lavorare e se arriva una gratifica per qualcosa che ho fatto sono sempre soddisfatto, è evidente. Il mio “ego” però non si sviluppa perché non mi interessa apparire, presenziare. Per me la cosa più importante è “fare” e se mi chiama un regista come Paolo Sorrentino impazzisco molto di più che se mi consegnano un premio. Sono felice che mi si dica “Bravo!”, soprattutto se il riconoscimento viene dal pubblico, ma intanto voglio fare, lavorare. Per fare un esempio, ogni volta che doppio Kevin Spacey o Javier Bardem, per me è un'esperienza recitativa nella quale imparo sempre qualcosa: così vivo il mio lavoro!
Tre aggettivi per descriverti?
Determinato, vulnerabile...creativo!
...un uomo appassionato ed eclettico che ama mettersi in discussione, evolversi, osare, per far volare alto il suo talento; un sognatore, ma con i piedi ben piantati per terra. Ci salutiamo parlando di uno dei suoi libri preferiti, Trattato di funambolismo di Philippe Petit che una volta ha detto: “Essere ispirati significa voler fare qualcosa o essere già sul punto di farlo ed è forse un'altra delle infinite definizioni della creatività”. E Roberto Pedicini è sicuramente un artista ispirato.
(La foto di Roberto Pedicini è di Azzurra Primavera)