È stata di sicuro una scommessa quella di mettere in Concorso un film così particolare e certo non perfetto come Atlantique, opera prima dell'attrice e autrice Mati Diop, che oltre ad essere figlia del musicista Wasis Diop, è la nipote del regista senegalese Djibril Diop Mambéty (1945-1998), uno dei massimi autori del cinema africano moderno, pur avendo realizzato solo due importanti lungometraggi e tre mediometraggi tra cui lo straordinario La Petite vendeuse du Soleil, uscito postumo nel 1999. Era quindi con una certa attesa e curiosità che si attendeva al varco il debutto della Diop che risultava essere non solo la prima donna di colore a essere inserita in un Concorso sulla Croisette ma anche con un'opera prima, quindi messa a confronto con una pletora di grandi filmaker molto affermati. Insomma una figlia d'arte che in più esibiva le stigmate di un esplicito “politicamente corretto”.
Ma dimentichiamo di tutto ciò per un attimo e concentriamoci su questo film sincretico i cui notevoli pregi a noi appaiono maggiori dei suoi non piccoli difetti. Intanto partiamo dall'inizio spiazzante che sembrerebbe essere quello di un opera alla Ken Loach: ci troviamo nel cantiere di un grattacielo monstre a Dakar dove un gruppo di operai parecchio incazzati protestano perché non vengono pagati gli stipendi da mesi e si sospetta che padrone sia scappato con la cassa. Già da questo primo evento che sradica l'immaginario occidentale ancora abituato a pensare l'Africa come un posto in cui “il tucul è una capanna dove il negro fa la nanna” e non come in effetti è un luogo di un capitalismo rampante e selvaggio, Atlantique rivela la sua prima e vera ragione d'essere. Quello cioè di essere un film sull'emigrazione e lo sfruttamento esemplificato e costruito su una impossibile storia d'amore tra un giovane muratore, Suleiman, e la bella e giovane figlia di una famiglia islamica tradizionalista, Ada, ovviamente promessa sposa ad un ricco della zona. Stante la situazione senza speranza, il ragazzo decide di partire, avventurandosi su una barca con altri disperati e compagni di sventura per cercare dal Senegal di raggiungere l'Europa. E come poi sapremo nel corso della narrazione, i fuggiaschi sono purtroppo tutti morti nel naufragio dell'imbarcazione stessa.
A quanto ha dichiarato la stessa regista, l'ispirazione di questa che è l'idea di partenza del film, risale al suo secondo corto documentario, Atlantiques (2010), premiato al Festival di Rotterdam, in cui si raccontavano le vicende autentiche di un ragazzo che aveva provato a scappare per mare dalla madrepatria. Tuttavia, nel lungometraggio il seguito del plot, sino ad un certo momento di pretto taglio realista sia nell'uso di attori non professionisti (per altro molto convincenti) sia in quello di situazioni e ambienti realistici, ci riserva una sorpresa: i morti in mare si reincarnano negli “jinn”, le creature citate dal Corano che incarnano entità soprannaturali, intermedie fra mondo angelico e umanità, per lo più però di carattere maligno. E questi demoni ritornano a Dakar per vendicarsi del male fatto loro in vita.
Si susseguono allora nel film una serie di fatti che non appartengono alla logica del reale come ad esempio il letto di nozze di Ada e del ricco pretendente che inspiegabilmente prende fuoco appena dopo le nozze, oppure la possessione delle donne dei muratori del grattacielo in costruzione di Dakar che, trasformatesi in delle specie di zombie, si presentano a riscuotere il debito dei loro uomini mai stati pagati. Ed è qui a questo punto che scatta allora un'indagine di polizia – la parte meno convincente di tutto il film – che ci condurrà ad un finale a sorpresa.
Per apprezzare veramente il lavoro della Diop bisogna dimenticare gli intoppi e alcune goffaggini di sceneggiatura, il paradosso dello scontro tra l'impianto realista iniziale, la bella, fantasmagorica descrizione dell'ambiente, dei personaggi e di un amore disperato, e l'elemento magico-religioso del finale con la sua catarsi. Bisogna leggere dentro Atlantique la denunzia di una situazione insostenibile e apprezzarne il sommesso grido di dolore qui narrato su una gioventù costretta all'emigrazione (e talvolta alla morte) per potere affermare e nutrire se stessa; bisogna aderire con affetto e con un ingenuo atto di fede ad una fiaba utopica, piena di luci e colori (molto bella la fotografia di Claire Mathon), a cui è forse, se non impossibile, credere.
La Giuria del Festival di Cannes evidentemente si è lasciata sedurre da queste sirene, tanto da insignire al film in modo abbastanza esagerato il prestigioso “Grand Prix”. Troppa grazia ma ciò non ci impedisce di guardare all'opera di debutto della Diop con simpatia e rispetto, augurandoci che possa essere anche distribuita in Italia.
(Atlantique); Regia: Mati Diop; sceneggiatura: Mati Diop, Olivier Demangel; fotografia: Claire Mathon; montaggio: Ael Dallier Vega; interpreti: Abdou Balde, Amadou Mbow, Aminata Kane, Babacar Sylla, Diankou Sembene, Ibrahima Mbaye, Ibrahima Traore, Mame Bineta Sane, Nicole Sougou; produzione: Cinekap, Frakas Productions, Les Films du Bal; origine: Belgio, Francia, Senegal, 2019; durata:104' .
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