venerdì 27 gennaio 2017

Split screams

La parabola artistica di M. Night Shyamalan ha qualcosa di sublime che la rende in certo qual modo unica e assolutamente irripetibile.
Figlio di emigrati di origine indiana, nato a sua volta in India per volontà dei suoi stessi genitori ma americano per educazione, il regista di film come The last airbender e The visit ha sempre cercato di fondere in un unico sentire le due radici distanti del suo essere.
Amante della cultura pop americana, in specie quella dei fumetti supereroici, ma anche quella di certo cinema di genere, Shyamalan è sempre stato alla ricerca di un linguaggio capace di combinare la filosofia indiana ai modelli occidentali di tanta cultura pop.
Ma la sua è un'operazione molto meno innocua di quanto non sembri a tutta prima perché supera la mera dimensione linguistica per diventare espressione di un pensare filosofico che usa il linguaggio con una consapevolezza quasi wittgeinsteiniana del processo messo in atto.

Non esotismo fine a se stesso, quindi, ma rilettura in profondità archetipale di due diversi approcci al narrare, in cerca disperata di una (in)quadratura del cerchio che abbia un senso profondo prima di tutto in se stessa.

La sua ricerca non tende quindi al blockbuster di matrice americana profumata al curry. Né, viceversa, è il prodotto bollywoodiano da vendersi in un MacDonald, ma una suprema sintesi di entrambe le tradizioni narratologiche capace di esprimersi in generi e secondo percorsi di volta in volta diversi eppure coerenti a un'unica visione del mondo.

Come il protagonista di Split, il cinema di Shyamalan è stato, fino a questo momento, dominato da diverse personalità salite alla luce del proiettore con buona pace di un'industria, quella americana, che vorrebbe un brand unico e replicabile sempre. Così i suoi film sono stati di volta in volta thriller, fumetti, fantascienza, racconti per bambini: infinite personalità per un solo volto, quello di un prodotto filosofico ossessionato dal bisogno di trovare una chiave interpretativa attendibile e virtualmente condivisibile dei segni sparsi del reale.
Lady in the water era una favola che sarebbe potuta piacere al piccolo Hedwig che in Split è l'ambigua componente novenne. The village aveva una protagonista femminile che non sarebbe dispiaciuta alla pragmatica Patricia. E venne il giorno era una distopia dal sapore orwelliano che ci mette disarmati di fronte alla nostra infinita piccolezza.

Di tutta questa complessità l'anima commerciale americana ha colto il cambiamento ignorando la continuità. E gli è stato gioco facile rimarcare a ogni passo come di ogni genere frequentato mancasse sempre un elemento fondativo. Così al Blockbuster si rimproverava la sostanziale mancanza di azione come alla fantascienza la relativa mancanza di speculazione. E alle sceneggiature troppo elaborate si opponeva la mancanza di profondità di personaggi e interpretazioni attoriali. A caccia di anelli mancanti si è prestata poca attenzioni agli elementi eccedenti col risultato di dimenticare che ogni vuoto produce un'ombra che assume significato come i segni delle croci sui muri della casa del pastore di Signs: c'erano prima, ma è adesso la loro assenza a parlare.

Per paradosso Shyamalan è stato, nel corso del tempo, criticato per un motivo e per il suo esatto contrario: il suo non riuscire a rifare Il sesto senso ostinandosi, malgrado, ciò a riutilizzarne sempre gli stessi ingredienti.
E la sua insistenza a fare film assolutamente personali malgrado l'insuccesso è parsa una meteora in un cinema, come quello dell'ultimo ventennio, sostanzialmente amorfo e pronto a cambiare faccia semplicemente perché non ha un'anima.

Split diventa, quindi, una riscossa dal basso di un cinema che rivendica la sua importanza con la violenza tellurica di un rimosso che torna a galla, ostinato.
Siamo abituati a considerarlo minore, dopo gli esiti al botteghino assai poco lusinghieri di opere come After Earth? E allora, come dice la psicologa interpretata dalla stessa Betty Buckley che moriva sbattendo la testa contro un vetro in The happening, chissà che non sia vero piuttosto il contrario e chissà che non siamo noi a non essere abbastanza grandi per comprendere quanto quello che abbiamo davanti non sia invece il prossimo stadio evolutivo di un narrare che non ricalca il passato, ma lo supera in volata.

Di qui il twist ending sublime del film che ribalta la percezione di quanto abbiamo visto in una chiave che non è narrativa come per Il sesto senso, né sociologica come per The happening o metafisica come per Signs, ma metaconsapevole e metalinguistica. In chiusura, il cinema di Shyamalan si apre a parla di se stesso. E se è vero che quel che conta in ogni suo film non è quello che non abbiamo visto, ma, come nei gialli, l'interpretazione che ne abbiamo dato, il twist ending di Split si fa vieppiù sublime perché supera il narrato e si impone al senso stesso della nostra percezione della narrazione. Rompe utopicamente la quarta parete della finzione cinematografica e ci obbliga a diventare consapevoli della nostra lettura del film proprio mentre la compiamo. Credevamo di essere in un thriller ed eravamo invece in tutt'altro genere. Come, nel film, Dennis quando finge di essere Barry.

La parabola di Shyamalan, lo dicevamo, in fondo è strana: calava, ma rimanendo sulla stessa linea, conservando intatti i propri valori sull'asse delle ordinate. E ora riprende quota, ma senza spostarsi di una virgola.

Un regista, in quel di Hollywood è riuscito a non vendersi l'anima per compiacere critica e botteghino. E ora è fuori, a spaventare i nostri sonni, sporcandoli del nero delle nostre paure peggiori. A noi non resta che ammirarlo. Aspettando ansiosi e preoccupati che colpisca ancora.



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