giovedì 12 ottobre 2017

L'altra metà della storia

L'altra metà della storia è un concetto su cui gira la storia dell'universo. Nessuno al mondo può pensare che sia andata davvero come ricorda. Ma tutti si crogiolano nella certezza di essere portatori della verità unica e assoluta. In questo inganno autoindotto si muove il protagonista di mezza età Anthony Webster (Jim Broadbent) detto da tutti Tony, bottegaio di macchina fotografiche vetuste, carestose, alquanto fuori moda, un po' come lui. Ex marito indifferente e ego-riferito, padre assente e forzatamente tirato in ballo, si muove sgraziato tra passato e presente. Nella prima scena lo vediamo bistrattare inutilmente con malagrazia un gentile postino di origine indiana che gli consegna una busta-chiave: qualcuno è morto e ha lasciato in eredità una discreta cifra di denaro e qualcosa per lui, qualcosa che è un oggetto fisico ma non viene esplicitato che cosa e che non è presente nel plico. Questo primo indizio, questa prima scintilla-carburante spinge la trama in un andirivieni tra flashback indietro di una trentina d'anni e momenti ambientati nel presente. Tratto da un buon romanzo di Julian Barnes, Il senso di una fine, sceneggiato abilmente, supportato da una ferrea struttura temporale volutamente spiazzante, il film è egregiamente tenuto in piedi da caratteri forti e verosimili, da incastri complessi, da una recitazione superba. Nel presente conosciamo la famiglia di Tony, composta dalla figlia incinta (Michelle Dockery, fantastica Lady Mary di Downtown Abbey), senza maschio, riprodottasi con seme anonimo (in una battuta lui liquida la questione come una cosa che non capisce), una ex moglie (interpretata magistralmente con una recitazione in sottrazione da Harriet Walter, il cui viso senza ritocchi è una mappa che racconta tutto) molto, forse troppo paziente, qualche figurina di passaggio, Veronica in versione agé (Charlotte Rampling), ragazza che fulminò il protagonista ventenne con la sua ambiguità sensuale, la sua passione per la fotografia (Tony le confessa, davanti a un caffè al bar nel primo incontro dai tempi che furono: mia moglie pensa che il mio negozio sia un santuario a te), il suo abbandonarlo senza averlo lasciato amarla biblicamente. Nel passato incontriamo il gruppo di quattro amici fedeli, tra cui Adrian, polemico studente con una passione sfacciata per la filosofia, due buontemponi, Veronica giovane, la famiglia della ragazza composta da Sara (Emily Mortimer), la ancora piacente madre quarantenne alla ricerca di frisson, il padre accondiscendente, il fratello provocatore. Questa giostra di personaggi ben delineati portano avanti e indietro una trama densa di rimandi, elucubrazioni, sentimenti e rimorsi. Il cambiamento necessario al protagonista a proseguire la sua vita senza continuare a guardarsi à rebour avviene come da copione, come è giusto che sia. Intorno nascite, suicidi, figli illegittimi, amori, dolori. Fotografia limpida. Montaggio serrato alternato, su immagine e durante le riprese con cambi e entrate di scena dello stesso personaggio in età diverse. Un film di impronta classica ma dallo sviluppo imprevedibile e avvincente, che coinvolge lo spettatore non solo nello sviluppo della storia - l'altra metà del titolo - ma anche in un individuale viaggio interiore nel passato e nella propria memoria privata.

(The Sense of an Ending); Regia: Ritesh Batra; sceneggiatura: Nick Payne; fotografia: Christopher Ross; montaggio: John F. Lyons; musica: Max Richter; interpreti: Jim Broadbent, Charlotte Rampling, Harriet Walter, Michelle Dockery, Matthew Goode, Emily Mortimer; produzione: Ed Rubin, David M. Thompson, Norman Merry distribuzione: Bim; origine: Gran Bretagna, 2017; durata: 108'



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