A Sean Baker e al suo cinema voglio bene da tempi non sospetti. Fin da quando, col gruppo di lavoro messo insieme da Emanuela Martini al Torino Film Festival, abbiamo portato per primi in Italia i suoi primi film, che chiaramente doveste recuperare: Prince of Broadway, Starlet, Tangerine, Un sogno chiamato Florida. Ovvio quindi che la straripante vittoria agli Oscar 2025 di Anora (“solo” cinque premi, ma su sei nomination, e tutti pesantissimi) mi faccia abbastanza contento. A maggior ragione, però, mi sento in diritto di poter in qualche modo, se non ridimensionare, mettere vagamente in prospettiva questo trionfo.
Prima di tutto Anora ha vinto presentandosi agli Oscar da vincitore annunciato, così come Emilia Pérez vi è arrivato da sconfitto annunciato, e quindi la sua sconfitta è stata una sconfitta relativa. Quella strana vicenda che mescola i dettami della correttezza politica e della cultura woke che si sono ritorti contro il film che li doveva rappresentare, e una clamorosa incompetenza nella gestione della campagna promozionale da parte di chi di dovere, aveva affossato il film di Audiard più in basso di ogni possibile tentativo di salvataggio.
Ma stavamo parlando di Anora. Anora che è arrivato alla Notte degli Oscar da vincitore annunciato e che ha vinto, e ha vinto forse più per mancanza di una seria concorrenza che per i suoi pur rilevanti meriti. A scorrere le liste delle candidature, infatti, saltava all’occhio proprio quello: come, con l’eccezione di The Brutalist, sul quale torneremo, e con Emilia Pérez fuori da giochi, non ci fossero nomi o titoli in grado di impensierire seriamente il film e Baker.
Se poi volessimo fare una battuta dal vago retrogusto politico, potremmo dire anche che Hollywood ha applicato i suoi dazi, e allora meglio un cinema indipendente, ma americano, che un cinema hollywoodiano, ma firmato da mano straniera. A maggior ragione, sebbene oggi a una certa America la Russia non stia più in antipatia come una volta, impensabile era che il più meritevole degli attori non protagonisti, lo straordinario Yuri Borisov, potesse soffiare l’Oscar già vinto da tempo da Kieran Culkin, che per carità è stato molto bravo, in A Real Pain, e che sul palco, ritirando il premio, ha fatto uno dei suoi numeri un po’ alla Benji.
A Conclave, che pure forse ci aveva un po’ sperato e che si è accontentato dell’Oscar per la sceneggiatura non originale, non è bastato il traino del Papa ricoverato al Gemelli, ma come dicevamo prima il vero sconfitto è The Brutalist, che si presentava con dieci nomination e che ha vinto solo tre premi: a parte quello a Adrien Brody, il secondo Oscar legato all’Olocausto dopo quello di The Pianist, gli altri due sono andati a fotografia e colonna sonora, quindi inevitabilmente considerati “minori”. Ma non solo. La sconfitta di Corbet è legata anche all’ideologia cinematografica alla base del suo film, che come abbiamo detto altrove, si pone come magniloquente e grandioso monumento al cinema hollywoodiano che fu e che pare non essere più, rischiando quindi di trasformarsi nel suo mausoleo.
Ecco: Anora che vince su The Brutalist è esattamente questo, il segno della trasformazione del cinema, e di quello che è considerato il tipo cinema più rilevante nel presente, laddove le vecchie formule hollywoodiane, che fino a una manciata di anni fa avrebbero trionfato, cedono di fronte alla freschezza, alla mobilità, alla cangiante leggerezza - produttiva e narrativa - delle nuove. Il nuovo vince sul vecchio anche nel duello tra Mikey Madison e Demi Moore come miglior attrice: solo Chalamet, che aspira a essere “uno dei grandi” ha chinato il capo di fronte a Brody (che pure continuo a preferire in ruoli leggeri, quelli con gli Anderson e gli Allen), che portava con sé il Grande Tema, e non solo il Grande Personaggio.
Sul resto c’è ben poco da dire. Se non che la felicità di vedere premiato Flow come miglior film d’animazione è un po’ inquinata dal dispiacere di averlo visto perdere quello come miglior film internazionale, che - sia detto con tutto il rispetto per i Walter Salles di tutto il mondo - avrebbe meritato a mani basse. E che al colpo al cerchio dell’Oscar legato all’Olocausto a Brody, l’Academy ha associato quello alla botte dell’Oscar al documentario No Other Land, realizzato da un collettivo israelo-palestinese, ma tutto dalla parte di questi ultimi.
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