venerdì 25 novembre 2016

Il più grande sogno

Fare film sul carcere non è facile. Ancora meno farne su quello che viene dopo. Perché significa provare a descrivere una qualche specie di vuoto. Molto spesso l'assenza di libertà prolungata per anni, trasformata in altre forme di sopravvivenza - più o meno tormentate, più o meno pacificate, più o meno vissute come momenti di riflessione su se stessi - entro il perimetro di un istituto di pena, si trasforma in una bolla che separa la realtà dentro le mura da quella fuori.
Traghettare la nuova dimensione di sé dentro la vita vera - non più quella propria, visceralmente personale che, per quanto irregolare e caotica, esiste e rappresenta l'esistenza prima di entrare, ma quella sconosciuta, distonica, spesso respingente di quando si esce - può essere deflagrante.
Mirko Frezza è stato in carcere e ne è uscito. Quando racconta, a e con Michele Vannucci, prima nel documentario Una storia normale, ora nel film Il più grande sogno, cosa vuol dire tornare alla vita, noi gli crediamo. Non per la bella faccia cinematografara, gli occhi dipinti e i lunghi capelli che occupano gran parte delle inquadrature con ondeggiamenti che nemmeno la Hayworth ma perché, qualunque forma o composizione riveli, è la sua idea degli altri come famiglia ad essere al centro della lotta quotidiana per riappropriarsi della propria identità, della propria vita. Famiglia significa figlie che non hai visto crescere, compagna che non hai potuto amare, padre che si è lasciato andare sempre di più, senza che tu potessi fare niente. E poi gli amici di sempre che si sono persi o che sono restati, il quartiere, le facce che hanno popolato la tua adolescenza, che l'hanno influenzata, nel bene e nel male, la strada, il cielo, i cavalcavia, Roma. Una Roma della periferia più povera e problematica, sempre in bilico tra sopravvivenza e illegalità, miseria e ‘mpicci, depressione e svorta, ma anche attraversata da rare espressioni di umanità, dignità, tenerezza, ironia, voglia di vivere e di essere qualcosa per te stesso e per gli altri.
È forse la forma del documentario a riuscire, in questi ultimi anni, a cogliere, con la delicatezza e la precisione necessarie, aspetti parziali ma cruciali dell'esistenza di chi, secondo termini di legge, è costretto a lasciare la società a causa di un atto compiuto, e restituire il ritratto di un universo, agli occhi dei più ancora misterioso, che esiste e si muove accanto a noi, con dentro persone come noi, con le stesse componenti umane e medesime dinamiche relazionali. In questo caso, il salto dal cinema del reale alla finzione era invero già interno al documentario, che sapeva di costruzione ed emozione cinematografica, e viene qui registrato più nettamente a livello di una sceneggiatura che dà il suo meglio, paradossalmente, nelle riflessioni più meditate piuttosto che nella pur efficace messa in scena della colloquialità romana, nei silenzi più che nel fascino di una colonna sonora preziosa ma a tratti invadente. Le scene più vive arrivano quando cadono le resistenze estetiche di un innegabilmente promettente, seppur talora troppo pronunciato, esordio, fatto di filtri, riduzione dello spazio visivo, ombreggiature, pedinamenti. Il meglio ci viene dai momenti piccoli, dai duetti ravvicinati e intimi, come quelli con la figlia Michelle, una Ginevra de Carolis misurata e generosa al tempo stesso nell'esprimere quel desiderio di affetto soffocato dalla comprensibile necessità di autodifesa, per non soffrire ancora, o quelli con il padre, nel semibuio di un prato di collina. Basso continuo la spalla di Mirko, il Boccione di Alessandro Borghi, mantiene marcati residui della ormai lunga frequentazione cinematografica di ambientazione romana subproletaria, trasformando però gradualmente quella sorta di disincanto spento di certi personaggi in una fievole ma non debole aspirazione di crescita e rivalsa. Anche lo snodo finale funziona, cucendo con semplicità e fuori dalle strade della retorica, gli orli di una storia di marginalità e giusta speranza. Da conoscere e amare.

(Il più grande sogno); Regia: Michele Vannucci; sceneggiatura: Michele Vannucci; fotografia: Matteo Vieille; montaggio: Sara Zavarise; musica: Teho Teardo; interpreti: Mirko Frezza, Alessandro Borghi, Vittorio Viviani, Milena Mancini, Ivana Lotito; produzione: Giovanni Pompili per Kino Produzioni; origine: Italia, 2016; durata: 97'



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