giovedì 26 marzo 2020

Di “Piccole Donne” e dintorni

Per combattere l'inedia della quarantena e l'ozio intellettuale, la redazione di Close-up ha pensato, da qui al prossimo, difficile periodo che ci attende (chissà? Un mese oppure due?), di sviluppare una nuova rubrica (#iorestoacasaecritico) per aggiornare con dei contenuti nuovi e spumeggianti la nostra amata rivista, essendosi, nel frattempo, bloccata tutta la distribuzione (salvo quella on line che copriremo comunque) e non essendoci la possibilità di seguire nuove anteprime.

La proposta si svilupperà su aggiornamenti costanti (due volte a settimana: indicativamente il mercoledì e il sabato) per tutto il periodo della quarantena e, forse oltre. L'idea è quella di parlare di grandi classici della storia del cinema oppure di film sconosciuti o dimenticati, per raccontarli come se andassimo ad un'anteprima o da utilizzare come cartine al tornasole per scoprire, investigare, reinventare traiettorie per nuove storie della visione. Apre le danze Giovanni Spagnoletti. STAY TUNED

A più riprese mi sono chiesto, molto ingenuamente per carità, perché mai, pur in un cinema eternamente e strutturalmente globalizzante come quello statunitense, ci siano dei film che, più di altri, corrispondono al gusto, alla cultura - mi verrebbe voglia di aggiungere - alla natura della società americana (ma non solo). Per esempio, mi è capitato di cercare di riflettere su una opera del passato, per me piuttosto indigesta, Il mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939), diretta da Victor Fleming e basata sul primo dei quattordici libri di Oz di L. Frank Baum, che viene da sempre considerata, dalla stragrande maggioranza dei critici americani, uno dei grandi capolavori del cinema hollywoodiano. E ciò a prescindere dalla splendida Over the Rainbow cantata da Judy Garland, figura per altro di recente revocata in un film teatrale (a mio giudizio tutto sommato mediocre), Judy (2019) di Rupert Goold, che ha fruttato a Renée Zellweger l'Oscar 2020 per la migliore interpretazione femminile. Indubbiamente mi rispondo da solo, prima di chiunque altro: “colpa mia che non lo capisco” ma mentre con Il mago di Oz attendo ancora di venire a capo del busillis, un altro caso ora mi ha stuzzicato la riflessione, anche se anche qui non penso di trovare una risposta convincente all'interrogativo da cui ero partito. Si tratta di Little Women diretto, nel 2019, dalla regista emergente ed ex “mumblecore” Greta Gerwig con un gran bel cast: Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Timothée Chalamet, completato da Laura Dern e Meryl Streep, oltre a Chris Cooper e Louis Garrel.
Spinto dalla curiosità e a seguito anche di ricordi un po' sbiaditi nel tempo, si va a scoprire, facendo qualche breve ricerca, che questa è addirittura la sesta versione cinematografica americana dopo due del Muto andate perse (del 1917 e 1918), due classiche molto note a cui e per cui si sono appassionate e hanno pianto molteplici generazioni di adolescenti e non - quella di George Cukor del 1933 con Katharine Hepburn, Joan Bennett e Douglass Montgomery e poi la successiva, la prima a colori, di Mervyn LeRoy nel 1949 con June Allyson, Elizabeth Taylor, Margaret O'Brien e ahimè Rossano Brazzi nella parte del professore tedesco Friedrich Bhaer; e infine il film (1994) dell'australiana Gillian Armstrong, interpretato da un cast stellare: Winona Ryder, Susan Sarandon, Christian Bale, Gabriel Byrne, Claire Danes e Kirsten Dunst. Senza essere fanatici delle statistiche, ancora in area anglosassone troviamo poi quattro miniserie tv prodotte della BBC inglese (nel 1950, 1958, 1970), l'ultima delle quali, tre anni fa nel 2017, di Vanessa Caswill con protagonista Emily Watson. Inoltre non manca un tv-movie della NBC in due puntate del 1978 diretto da David Lowell Rich oltre ad degli esempi nel campo d'animazione, tra cui due “anime” giapponesi rispettivamente del 1981 e 1987. Infine, per quanto riguarda casa nostra ricordiamo la seconda fiction in assoluto mai prodotta e trasmessa dalla RAI ai suoi albori nel 1955, le Piccole donne di Anton Giulio Majano, inizialmente prevista in quattro puntate poi diventate cinque “a furor di popolo”, con Alberto Lupo, Lea Padovani e Emma Danieli - nel 1989 ne è stato realizzato anche un remake, la miniserie tv Quattro piccole donne, per la regia di Gianfranco Albano. E terminiamo qui l'elenco del telefono, di sicuro ci siamo dimenticati qualcosa ma non sarà un peccato capitale.
Che ancora negli ultimi tre anni siano nati una serie tv anglo-americana (trasmessa anche in Italia) e un bel film vorrà dire pur qualcosa sulla valenza fuori dall'ordinario del romanzo o meglio dei romanzi di Louise May Alcott, usciti per la prima volta nel lontano 1868 e 1869 e poi unificati nel 1880 in un unico volume che ne rappresenta anche linguisticamente la versione definitiva – in due parole si tratta di un romantico Bildungsroman dai risvolti pedagogici e filosofici che ha sedotto (e forse, ma non ne sono certo, ancor oggi seduce), generazioni e generazioni di adolescenti. Non che la cosa mi riguardi direttamente (e credo di parlare anche a nome di tutta la mia generazione di maschietti medio colti) – imbevuto di avventura e fantascienza, di Verne e di Salgari, oppure di letture colte e politiche, il sottoscritto si ricorda bene di aver schifato questo tipico romanzo ottocentesco da “ragazzine”. Né tantomeno ho intenzione oggi di colmare tale lacuna mentre mi interessa capire il potenziale spettacolare insito in questo testo che, anche al di là dell'America e delle sue specificità culturali originarie (il trascendalismo filosofico con il suo potente riflesso sulla letteratura classica americana dell'Ottocento), continua evidentemente a offrire molti spunti di interesse ancor oggi.
Una brava critica cinematografica di un tempo, Lietta Tornabuoni, recensendo sulla “Stampa” nel 1994 la versione di Gillian Armstrong scriveva: “Ancora Piccole donne? Un'altra volta? Da capo? È passato oltre un secolo dalla pubblicazione del romanzo […] di Louise May Alcott, autobiografia dell'autrice con le sue sorelle, e siamo sempre lì? Certo: a rileggerla la storia è naturalmente invecchiata, ma restano gli elementi d'un fascino che, anche attraverso la mediazione e gli aggiornamenti di cinema e televisione, resiste da molte generazioni. Piccole donne ha qualcosa di perennemente entusiasmante”.
A distanza di 25 anni non possiamo che darle ragione riguardo a questa epopea “situata in una repubblica domestica di donne priva dell'autorità e dei condizionamenti coniugal-paterni”, a un'idea di famiglia solidale, così diversa da quella nostra domestica. E tutto ciò diventa ancora più evidente quando si vede (ri)raccontata la storia fuori dai parametri, le gabbie (ma anche l'affascinante splendore) del cinema classico hollywoodiano (Cukor e LeRoy) così oggettivistico per natura e ancora indenne dalla “tara”, dal peccato della soggettività del Moderno. Senza bisogno di scomodare i “Gender studies” o il femminismo, non c'è dubbio che le due versioni più nuove e confrontabili sono quelle di due registe donne che apportano (o riscoprono) qualcosa di nuovo, e dove la prima inizia un cammino che l'altra porterà a compimento. Ciò non significa che i loro film siano più belli e glamour dei precedenti - non è questo il punto.
Strapazzata da gran parte della critica d'epoca che soprattutto stigmatizzava l'eccessiva bellezza di Winona Ryder rispetto al personaggio di Jo così come emerge dalle pagine dell'originale, la versione della Gillian Armstrong conteneva però un sinora inedito elemento, questo sì soggettivo, di verità autobiografica dell'autrice nel restituirne la sua situazione familiare, essendo cresciuta la scrittrice con dei canoni nuovi per l'epoca, dal padre Amos Bronson Alcott, educatore, insegnante e filosofo trascendentalista. Ne conseguono alcuni dialoghi e dissertazioni che pur non presenti nell'originale ne aderiscono allo spirito, parlando dei diritti delle donne e degli sfruttati – era ora! Si potrebbe dire, ma sinora nessuno ci aveva ancora pensato (o voluto) a Hollywood nel ridurre il testo della Alcott. A un quarto di secolo di distanza, Greta Gerwig ha poi esplicitato queste premesse: innanzitutto ha evitato ogni patina oleografica nella ricostruzione storica (tra l'altro premio Oscar 2020 a Jacqueline Durran per i costumi del film), ancora un po' presente nella versione precedente ma soprattutto ha scardinato la sequenzialità temporale del plot del romanzo tramite una serie complessa di flash back che presuppongono di fatto la conoscenza della storia (e potrebbero confondere l'eventuale spettatore ignaro). Infine, già dall'incipit esplicita in pieno l'identificazione della protagonista Jo con la scrittrice. Per il resto non ci dilunghiamo oltre e vi invitiamo a leggere su queste nostre pagine una bella recensione (http://www.close-up.it/nuovo-artico...), anche se saremmo stati più generosi nella valutazione finale. Chissà, comunque, se in un futuro più o meno prossimo qualcuno ancora vorrà riprendere sullo schermo piccolo o grande, il romanzo ottocentesco della Alcott. Forse ci troverà, come presumo, ancora qualcosa di nuovo.



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