In anteprima europea al Far East Film Festival, ventunesima edizione, “Dying to Survive”, film diretto dal regista cinese Wen Muye è arrivato secondo nella classifica di gradimento da parte del pubblico, dopo la pellicola vincitrice del FEFF21 “Still Human” di Oliver Chan. Campione di incassi in Cina e interessante mix tra commedia, noir e dramma, Dying to Survive è indubbiamente un film efficace, che centra il suo obiettivo di denuncia, non rinunciando ad intrattenere, senza però perdere il filo drammatico della vicenda raccontata.
Tratto da una storia vera, la pellicola racconta di Cheng Yong, uno spiantato venditore di oli afrodisiaci, importati dall'India, il quale, a causa dei fallimentari affari e della separazione dalla moglie, si ritrova sul lastrico e pieno di debiti. Un giorno bussa alla sua porta uno strano individuo, coperto da una mascherina, si tratta di un malato di leucemia, il quale, propone a Cheng Yong di fare da corriere per importare illegalmente dall'India un farmaco, che pur non avendo certificazioni ufficiali, è in grado di arginare drasticamente gli effetti della malattia ed ha un costo di gran lunga inferiore all'equivalente cinese in commercio. Spinto dalla necessità economica, più che dall'altruismo, Cheng Yong accetta, diventando ben presto il contatto cinese per il traffico di farmaci tra India e Cina.
Attraverso i toni di una commedia piacevolmente “stramba”, vivace e piena di ritmo, il regista ci racconta inizialmente la scalata al successo dello “spacciatore” di farmaci, che ben presto si circonderà di improbabili “colleghi” tra cui un sacerdote, una ballerina di night e un ladro vagabondo. Questa squadra, unita dalla necessità di far fronte alla malattia, e poi, anche dalle prospettive del guadagno, dovrà scontrarsi però contro il cinismo delle Cause Farmaceutiche cinesi, non disposte a tollerare una simile invasione, per loro antieconomica, nel loro campo.
La favola d'oro del trafficante e del suo gruppo di amici leucemici, dipinta fino a quel momento coi toni della commedia, si trasforma, a metà del film, in una lotta contro la malattia, contro l'asservimento al denaro, contro l'indigenza dei malati e l'ingiustizia perpetuata nei loro confronti. In uno sviluppo credibile, Cheng Yong, che pur non essendo una persona cattiva, ha sempre fatto i suoi interessi, diventa suo malgrado un robin hood del farmaco, dopo aver toccato con mano la disperazione altrui e essere stato assalito da un opprimente senso di colpa. La sua lista di malati di leucemia, acquirenti ad un prezzo sempre più basso del farmaco illegale, è in qualche modo una lista alla Shindler, perché chi è scritto su quel foglio può permettersi la salvezza dalla malattia e quindi sopravvivere.
Il film non risparmia i toni cupi e drammatici, né la morte, né si affida a finali facilmente risolutori. Il problema, realmente esistente, emerge con chiarezza ed il messaggio di denuncia è fortissimo nel delineare un sistema sanitario a dir poco disumano e distante dai malati, talmente attaccato al guadagno da essere incurante dell'opportunità di salvare vite umane.
La pellicola si fa promotrice di far conoscere questa vicenda realmente esistente che diventa un monito per il futuro: solo dopo molti anni, infatti, si ottenne che il farmaco descritto nel film, in grado di curare questa forma di leucemia, fosse venduto ad un prezzo ragionevole in Cina. Una battaglia legale e politica, giocata sulla vita dei malati, molti, purtroppo, deceduti nell'attesa che ciò avvenisse, da qui il bel titolo Dying to survive.
Il film, meritevole, con un buon ritmo e un crescita convincente, è stato equiparato da alcuni a Dallas Bayer Club. Le differenze tra i due film in realtà sono parecchie. Nella pellicola cinese, infatti, si fa riferimento al traffico di un para-farmaco indiano i cui effetti erano però evidenti e non controversi, nel curare i pazienti. In Dallas Bayer Club, invece, ci si muove nel campo della sperimentazione e nel traffico di sostanze incerte, ben più controverse, considerata anche la malattia da contrastare, l'AIDS (per la quale all'epoca in cui è ambientato il film non si avevano infatti gli stessi rimedi che si hanno oggi).
Se il Dallas Bayer Club (una società che commercia farmaci alternativi e non approvati) è simile per certi versi all'associazione di Cheng Yong, tuttavia, nel film americano emerge anche la volontà di denunciare gli effetti nocivi dell'AZT, farmaco ufficiale utilizzato per la cura, con pesantissime ripercussioni sul fisico dei pazienti. Un messaggio di denuncia non privo di criticità, considerato che non sono ad oggi chiari gli effetti a lungo termine dell'AZt e dei cocktail di farmaci anti-Aids, i quali, combinati tra loro, in molti casi bloccano la proliferazione del virus.Risultati immagini per dying to survive
In Dying to Survive invece, gli effetti positivi del farmaco indiano non si discutono e sono provati: la denuncia si indirizza verso i magnate del mercato farmaceutico, contro la loro disonestà e la loro indifferenza verso i malati indigenti, così come contro la loro arroganza nello scegliere chi far vivere e chi far morire. Una denuncia che mette tutto nero su bianco e fa emergere, dati alla mano, come molte persone abbiano perso la vita soltanto per la mancata somministrazione del farmaco, troppo costoso.
Nel complesso un film bello da vedere, che intrattiene senza svilire i temi trattati e costruisce una bella storia e dei bei personaggi per affidare allo spettatore un importante messaggio ed infatti è piaciuto molto anche al pubblico del Far East Film Festival 21, arrivando in seconda posizione.
(I'm Not a Medicine God); Regia: Wen Muye; sceneggiatura:Han Jianü, Zhong Wei, Wen Muye; fotografia: Wang Boxue; montaggio:Zhu Lin; musica: ; interpreti: Xu Zheng, Zhou Yiwei, Wang Chuanjun, Tan Zhuo, Zhang Yu Yang Xinmin, Wang Yanhui; produzione: Ning Hao Xu Zheng; distribuzione: ; origine: Cina; durata: 117'
from Close-Up.it - storie della visione http://bit.ly/2WpJ5wh
Nessun commento:
Posta un commento