Dopo Povere Creature!, Yorgos Lanthimos ha presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes Kinds of Kindness, un’opera coraggiosa e disturbante, composta da tre atti distinti ma legati da un filo comune: la fragilità dell’identità umana e la violenza dei rapporti di potere.
Non è un film pensato per mettere d’accordo il pubblico, anzi: divide, respinge, interroga.
Girato con un budget limitato durante la post-produzione di Povere Creature!, Kinds of Kindness rappresenta un ritorno al Lanthimos più sperimentale. I tre episodi non sono collegati narrativamente, ma sono uniti da una riflessione comune: cosa succede quando rinunciamo alla nostra identità per amore, per obbedienza, per fede?
Il regista greco lavora su una struttura a incastro, affidando gli stessi a ruoli diversi in ogni atto, accentuando lo straniamento dello spettatore e suggerendo che l’identità è un costrutto instabile, pronto a crollare a ogni variazione di contesto.
Durante la conferenza stampa a Cannes, Lanthimos ha dichiarato: “C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel mondo ed è spesso più inquietante di qualsiasi film che possiamo inventare.” Kinds of Kindness non vuole spiegare né rassicurare, ma turbare. Ci riesce perfettamente.
Per capire davvero la forza di Kinds of Kindness, bisogna entrare nella struttura che lo definisce.
Tre atti separati, tre micro-universi con gli stessi attori ma ruoli diversi, che raccontano in modi nuovi il bisogno umano di controllo, fede e liberazione.
1. Primo atto: La morte di RMF
Un uomo vive sottomesso al suo capo in un rapporto di potere malato, controllato nei minimi dettagli: ogni sua azione è pre-approvata, ogni passo è dettato da qualcun altro. Quando prova a ribellarsi e a prendere una decisione autonoma, il sistema gli crolla addosso. Questo primo segmento è forse il più forte dei tre: è quello che funziona meglio a livello narrativo e visivo, con l’estetica gelida che accompagna perfettamente l’assenza di volontà del protagonista. È una riflessione sull’identità perduta, sulla dipendenza psicologica e sull’illusione del libero arbitrio.
2. Secondo atto: RMF vola
Jesse Plemons torna nei panni di un altro uomo, Daniel, che ritrova la moglie, interpretata da Emma Stone, dopo un incidente in mare. Ma qualcosa non torna: è davvero lei? O è una perfetta sconosciuta che finge? In questo secondo segmento, Lanthimos gioca con l’ambiguità identitaria e l’ossessione del controllo anche all’interno dei legami più intimi. È forse il meno incisivo dei tre, ma solleva una domanda potente: quando non possiamo più fidarci di chi amiamo, che cosa resta? Il dubbio diventa più forte dell’amore, più reale della realtà stessa.
3. Terzo atto: RMF mangia un sandwich
L’ultima storia ha come protagonista Emily, un’adepta di una setta misteriosa incaricata di trovare una persona con il potere di riportare in vita i morti. È l’episodio più inquietante e allucinato. Qui il tema del controllo si sposta sul piano spirituale: l’identità viene assorbita da un’ideologia collettiva, la libertà viene sacrificata in nome di una fede cieca. L’estetica è volutamente disturbante, l’atmosfera rarefatta e la recitazione di Emma Stone, magnetica e disturbata, regge l’intero segmento.
In attesa di scoprire quale sarà il prossimo colpo di scena firmato Lanthimos, questo film resta uno dei lavori più radicali e coraggiosi del cinema recente. Un’opera che sfida lo spettatore e lo costringe a porsi domande scomode: fino a che punto siamo disposti a rinunciare a noi stessi pur di essere accettati?
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