sabato 28 gennaio 2017

Split

Non è vero che Shyamalan è tornato. Shyamalan non se n'è mai andato. Ha da sempre mantenuto fede con coerenza alla sua idea di cinema, mettendosi in gioco ogni volta e rischiando in prima persona con la voglia, forse a volte pia illusione, di trascinarsi dietro il pubblico conquistato con un paio di titoli “di ferro” in nuove e spesso troppo ostiche avventure, come il meraviglioso rompicapo di Lady in the Water, o l'incursione nell'onirica e animistica metafisica di E venne il giorno. Penalizzate dal box office due sue costose superproduzioni tra il fantasy e la fantascienza (L'ultimo dominatore dell'aria e After Earth), e ormai considerato “perduto” al pubblico dei grandi numeri, è poi riuscito a recuperare consensi con un film a basso costo, The visit, che ha segnato il suo ritorno al genere con cui si era fatto conoscere e amare: il thriller psicologico, con venature horror. Eccolo nuovamente sugli schermi con un'altra produzione a budget contenuto, che in patria ha già raggranellato quattro volte la spesa e pare averlo riconsacrato sul trono dell'unico, autentico erede di Sir Alfred Hitchcock. È dal Mago del Brivido, infatti, che da sempre risulta scaturire, opportunamente aggiornata alla contemporaneità, un'idea di cinema che intende illustrare eventi e situazioni criminali mostrando non tanto il crimine in sé, ma i suoi effetti sulle psicologie di chi di questo crimine è vittima o autore. Se Hitchcock, che da suddito di Sua Maestà Britannica aveva scelto il giallo come contesto in cui allestire la propria analisi dei comportamenti umani in caso di pericolo, senza mai adottare l'horror, in quegli anni genere troppo di serie B per chi poteva concedersi il lusso di cast composti dai volti più noti e più amati di Hollywood, Shyamalan ha appreso la lezione del Maestro e ha potuto permettersi, dopo lo sdoganamento dei generi negli anni '70, il lusso di impastare il pennello nella tavolozza dei toni e dei colori del fantahorror per mettere in scena una strategia della tensione in piena era postmoderna, disinteressata, come già nel caso di Sir Alfred, agli psicologismi espressi e spiegati verbalmente in sceneggiatura: tutto viene illustrato e rappresentato attraverso la fisicità volumetrica degli oggetti, meglio se di uso quotidiano come un bicchiere di latte, un mazzo di chiavi, o un paio di occhiali, in relazione ai corpi degli attori, creature vive e in movimento, che la cinepresa inquadra e segue tra quinte e pareti (scaffalature, tavoli, scrivanie, poltroncine) o su e giù per scale o scalinate, assecondandone le movenze per evidenziare la loro mancanza di agio nell'affrontare una criticità più o meno grave dentro una stanza chiusa, o in mezzo a una folla, creando un'empatia quasi tattile con “noi”, che quegli stessi oggetti usiamo tutti i giorni, che in quelle situazioni ci ritroviamo con ricorrenza mediamente frequente. Tutto ciò, utilizzando solo e semplicemente ciò che è “mostrabile”, “visibile”, e non riferibile a parole. Una tecnica che permette di trascinare lo spettatore dentro lo schermo, di porlo accanto agli attori, e di fargli provare la loro stessa ansia, la loro angoscia, il piacere di un lungo bacio, il dolore di una ferita da arma da fuoco, il salto in petto del cuore spaventato da uno rumore sospetto, il respiro affannoso di chi viene inseguito da una minaccia. Sono rari, oggi, gli autori che abbiano questo senso “plastico” di corpi vivi e oggetti inanimati (Tarantino, Zack Snyder…) e questa capacità di metterli in relazione con il “cinema”. Questa empatia che si crea tra regista, attori del film e pubblico è, grazie a questa sensazione fisica e solida di corpi e oggetti, totale. C'è una bambina, in Split, che in pochi ma importanti e disturbanti flashback interpreta sequenze di eventi accaduti alla ragazza protagonista nel corso della sua infanzia: un volto stranissimo eppure dolcissimo, che ritrae uno stupore del mondo continuamente rimuginato e risolto senza aspettare le risposte dei “grandi”; tutt'altro, insomma, che la consueta bambina carina e leziosa vista mille altre volte al cinema. In questi occhi bambini che già “sanno” c'è tutto il cinema di Shyamalan, passato e presente, che oggi è cresciuto, e ha riconosciuto gli errori commessi, ma forte della sua dolce fermezza, della sua ingenua, sincera, fanciullesca sicurezza di sé può andare avanti sereno e superare tutte le prove. Anche le più difficili, di quella difficoltà che è lo stesso autore, come già in passato, ad andare a cercarsi. Stavolta la sfida raddoppia, anzi si moltiplica per…23, tante sono le personalità in cui è scissa la mente di James McAvoy, psicopatico lontanamente ispirato a Billy Milligan, primo caso in USA di criminale assolto per infermità mentale (aveva rapito e violentato tre ragazze) perché per la prima volta la Corte considerò una nevrosi, e non una psicosi, il disturbo dissociativo di identità da cui era afflitto (forse in arrivo, prossimamente, un film su di lui con Leonardo DiCaprio…). Anche McAvoy (siamo a Philadelphia, la città dove Shyamalan ha ambientato quasi tutti i suoi film) rapisce tre ragazzine e le rinchiude in un sotterraneo, dove prevalentemente ha luogo l'azione del film: ecco la sfida maggiore, affrontata con la coscienza di saper perfettamente destreggiarsi in queste squallide stanze dismesse, in questi lunghi corridoi dai muri scrostati e con le tubature a vista, in un tripudio di maniglie, chiavistelli, stipiti, cartongessi, scaffalature in metallo e altra attrezzistica desueta ma ancora funzionante, muovere la macchina da presa come un serpente in trance, strisciante, insinuante, gestire azione, paura, tensione, follia, coraggio, e tutto quanto spinga contro lo spettatore, perché se ne innamori, i personaggi del film: una specie di Norman Bates (l'Anthony Perkins di Psycho) ipertrofico – splendida la prestazione multipla dell'attore scozzese, inquietante campione di trasformismo senza l'aiuto di stacchi di montaggio, ambiguo, feroce, svitato secondo la personalità prevalente in quel momento – e tre ragazzine terrorizzate ma sveglie e presenti, i cui abiti finiscono per diventare essi stessi elementi necessari alla comprensione di un racconto che svela via via i propri indizi in una spirale narrativa puntuale e implacabile: calzamaglie, body, scaldamuscoli, cardigan, canottiere, t-shirt, via via eliminati perché si arrivi a scoprire finalmente la pelle di… Alt! Spoilerare un film di Shyamalan equivale a sbertucciare il suo rispetto per lo spettatore, la minuziosa ricostruzione di un percorso cognitivo tracciato sulla griglia di una partitura esatta di tempi e ritmi calcolati al millimetro. Ma il cinema di Shyamalan non è solo invenzione, trovatine, e finali a sorpresa (proverbiali i suoi twist ending): è anche, e forse soprattutto, avvertire l'estrema fragilità dei protagonisti, in questo caso le tre ragazzine rapite e l'attempata psicologa (interpretata dall'ancor bella e rassicurante Betty Buckley), essere investiti dal respiro dolce e caldo del loro Grande Papà, il Regista del Film, che li ama tutti, buoni e cattivi, meno buoni e meno cattivi, di un amore tenerissimo e sconfinato ben oltre la consuetudine hollywoodiana, capace di far provare anche a noi, quando loro gioiscono, gioia doppia, e doppio dolore quando li attanaglia il panico, e la paura di morire spezza loro il respiro. Perché il materiale di Split è materiale che scotta. Mai si era spinto così in là, Shyamalan, nello scandagliare fondali riposti dell'animo di chi, certo, ha sconfinato nella follia, ma pure di chi custodisce in cuore ancora giovanissimo l'ingombro di una vergogna indicibile vissuta come condizione permanente perché l'età non ti permette di uscirne vivo e libero. Nel glorioso finale del film, quando accade ciò che ovviamente non si può raccontare nella recensione di un racconto interamente costruito per concludersi in “questa” deflagrazione (che tuttavia lascerebbe intendere quasi certamente un sequel, vista l'accoglienza entusiasta del pubblico USA) si ha esattamente la sensazione maeterlinckiana di “uscire alla luce”, finalmente, sì, ma di restarne anche turbati, storditi, con la voglia di annullarvisi dentro, come quando si guarda un film al cinema e prima di incollare gli occhi allo schermo si rimane sedotti dal fascio luminoso del proiettore.

Ecco. Questo era il tentativo di spiegare perché Split è l'ennesima testimonianza della grandezza e della maturità di uno tra i maggiori e sapienti narratori cinematografici contemporanei, aiutandovi a intuire, lungo i binari intricati di un thriller dolente, scabroso, scomodo e disperato, lo spessore e la qualità della sua regia densissima, implacabile. Shyamalan non è tornato. Shyamalan non se n'è mai andato. Date retta.

(Split); Regia: M. Night Shyamalan; sceneggiatura: M. Night Shyamalan; fotografia: Mike Gioulakis; montaggio: Luke Franco Ciarrocchi; musica: West Dylan Thordson; interpreti: James McAvoy, Betty Buckley, Anya Taylor-Joy; produzione: Blinding Edge Pictures, Blumhouse Productions; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA, 2016; durata: 116'



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