Un campione dei pesi medi ingiustamente accusato e condannato per un omicido che non aveva commesso.
Erano circa le due e mezza nel mattino del 17 giugno del 1966 quando due uomini afroamericani entrarono nel Lafayette Bar and Grill di Paterson (la cittadina del New Jersey raccontata anche da Jim Jarmusch nel film omonimo), e iniziarono a sparare, uccidendo due uomini e ferendone altre due, di cui una morì in seguito alle ferite un mese dopo.
Dopo la sparatoria, in base alle segnalazioni fatte alla polizia da un pregiudicato di nome Al Bello, venne fermata un auto a bordo della quale viaggiavano il pugile peso medio Rubin Carter - soprannominato "Hurricane" per lo stile aggressivo e prorompente che aveva sul ring, che si traduceca spesso in vittore per KO, arrivato a combattere per il titolo mondiale pochi anni prima - e un tale John Artis, entrambi afroamericani. A bordo dell'auto Carter e Artis avevano delle armi, ma quando la polizia li condusse davanti a dei testimoni oculari della sparatoria, nessuno riconobbe in loro i responsabili degli omicidi.
Ciò nonostante, dopo sette mesi e varie peripezie giudiziarie, Carter e Artis furono condannati al carcere a vita da una giuria composta interamente da bianchi, basandosi soprattutto sulle testimonianze di Bello e di un suo amico, Arthur Dexter Bradley: testimonianze successivamente ritrattate e poi di nuovo confermate in occasione di un secondo processo.
Carter non smise mai di professare l'innocenza sua e di Artis: in carcere scrisse una autobiografia, intitolata "The Sixteenth Round: From Number 1 Contender to #45472" e pubblicata nel 1974, in cui raccontava la sua versione dei fatti; e complice la sua popolarità di pugile, attorno alla sua vicenda giudiziaria si concentrò l'attenzione dell'opinione pubblica e della stampa, con grandi movimenti che richiedevano per lui la grazia o per un nuovo processo, nella convinzione che dietro alla sua condanna si nascondessero pregiudizi razziali.
A dare man forte alla causa di Rubin Carter arrivò anche il grande Bob Dylan, cui il pugile aveva inviato una copia del suo libro. Come prima traccia di "Desire", il suo diciassettesimo album, Dylan pubblicò nel 1975 "Hurricane", vibrante e appassionata canzone di protesta a sostegno della causa di Carter che ottenne un successo straordinario ed è ancora oggi uno dei brani più noti del cantante americano premiato col Nobel.
Sempre nel 1975 Dylan poi fece dell'ultima tappa della sua leggendaria tournée, la Rolling Thunder Revue, un concerto di beneficenza per Carter, seguito da un altro l'anno successivo a Houston. E il 5 dicembre 1975 Dylan suonò e incontrò Carter alla Clinton State Prison, per indurre la stampa a seguire il suo caso.
La canzone di Dylan (che nella sua versione originale dura la bellezza di 8 minuti e 33 secondi) non poteva non essere presente nella colonna sonora di Hurricane - Il grido dell'innocenza, il film che, nel 1999, con Denzel Washington come protagonista, racconta la storia di Rubin Carter, il quale nel frattempo era stato scarcerato in seguito a una sentenza della Corte Federale del 1985 che riconosceva come i precedenti processi non fossero stati equi che l'accusa era "basata su motivazioni razziali", e che nel 1988 vide ufficialmente cadere tutte le accuse contro di lui.
A dirigere il film è stato Norman Jewison, uno dei nomi più importanti nel cinema americano degli anni Sessanta e Settanta, regista di film come La calda notte dell'ispettore TIbbs, Il caso Thomas Crown, Jesus Christ Superstar, Rollerball e stregata dalla luna.
Per la sua interpretazione Denzel Washington, che aveva testardamente inseguito e sostenuto questo progetto per molti anni, venne candidato all'Oscar e al Golden Globe, e vinse l'Orso d'argento come miglior attore al Festival di Berlino.
Oltre alla canzone di Bob Dylan, nella colonna sonora del film di Jewison ce n'è anche una dei The Roots ugualmente dedicata a Rubin Carter, in aggiunta a brani di Gil Scott-Heron, Ray Charles, Etta James e molti altri.
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