Ascoltando per la prima volta Sounds of the Universe, per qualche motivo, veniamo interrogati da un chiaro pensiero: «Cosa significa "copiare" in musica?». Il pensiero è già chiaro dal momento in cui stringiamo in mano la bianca copertina dell'album dei Droptimes con il titolo dell'album che fa da soggetto e protagonista del pregevole progetto grafico. Perché un gruppo emergente deve impelagarsi con paragoni scomodi con i Depechemode, invocando una pietra miliare come il loro album omonimo? Perché doversi confrontare con i più inviolabili Pink Floyd disponendo durante i live un telo per proiezioni circolare?
Abbiamo cercato una risposta a questo interrogativo divertendoci a rintracciare tutte le citazioni, più o meno esplicite, presenti all'interno dello stesso lavoro: dal piano delle atmosfere sonore a quello delle intitolazioni, passando per i motivi e la componente testuale. Tutto è ben organizzato, frutto di una progettualità più ragionata che estrapolata dall'esperienza live. I suoni sono curati e disposti per poter penetrare al meglio dentro il significato distopico e "sospeso" dei testi. La scrittura dei singoli brani è propensa a presentare una struttura più narrativa che ancorata alla forma "strofa-ritornello": in questo l'ascoltatore può cogliere alcune somiglianze con la modernità di scrittura di gruppi come i Radiohead.
La varietà delle tracce strizza l'occhio a diversi tipi di ascoltatore: momenti più ambient vengono equilibrati da passaggi pieni di riff intuitivi ed efficaci; non mancano momenti più lirici supportati dal pregevole lavoro sui fiati di Marco Postacchini.
Piccola nota: a tratti si sente il bisogno di spazi dedicati a parti soliste degli strumenti che sembrano essere troppo ingabbiate in griglie strutturali un po' limitanti. Anche la quasi totale assenza della chitarra solista, spesso confinata nella sua funzione di supporto ritmico, pesa.
Al di là di questo, il gruppo esce praticamente allo scoperto della scena musicale emergente con un lavoro che espone la sua vena creativa a 360° dando la perfetta sensazione di aver a che fare con musicisti non proprio alla prima esperienza e che padroneggiano perfettamente la struttura e la direzione artistica del progetto. Invitiamo a godere dei magnifici progetti video legati alle singole tracce (presenti in YouTube o canali ufficiali del gruppo).
Torniamo però alla provocazione iniziale. Al netto di una massa così imponente richiami e citazioni (più o meno consapevoli, ma che invitiamo a rintracciare), può definirsi il lavoro dei Droptimes "originale"? Pensiamo che la risposta debba esser decisamente positiva perché è propria dell'esteta del concept album la volontà di realizzare un luogo denso di significanti che possa essere esplorato dall'ascoltatore curioso e meno curioso con la stessa efficacia e godimento. I Droptimes in quest'album hanno una voce chiara e riconoscibile e per questo "copiare" non è il termine più corretto per definire lo statuto di molto materiale presente in Sounds of the Universe. Ricordando e parafrasando una massima molto diffusa nel campo dell'arte figurativa possiamo dire che "il copiare" è proprio dei mediocri mentre "il rubare" è proprio degli artisti.
I Droptimes "rubano" materiale e lo piegano alla loro esigenza espressiva che rimane, per tutta la durata dell'album, coerente. Essi con questo lavoro si sono posti in una meritata e scomoda posizione di privilegio artistico. Speriamo possano confermarla e mantenerla a lungo.
Autore: Droptimes
Titolo: Sounds of the Universe
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