mercoledì 26 ottobre 2016

American Pastoral

Proviamo per un momento e fingere che American Pastoral, magnifico romanzo di Philip Roth non esista.
Immaginiamo che Ewan McGregor abbia lavorato su materiale originale, che gli sia venuta in mente, a lui attore inglese spesso fine e intelligente, questo spaccato generazionale di portata epocale.
Immaginiamo che si sia a un certo punto chiesto cosa potesse voler dire essere un ebreo americano subito dopo la guerra, quando l'antisemitismo di cui era ancora imbevuta la cultura statunitense faticava a dissolversi in una società più tollerante. E che si sia posto il problema di cosa potesse voler dire, per un personaggio che non desiderava altro che sparire dietro il mito americano del self made man, sposare una gentile, campionessa involontaria dell'archetipo della bellezza che, non si sa bene perché, fa rima con superficialità e vacuità di valori. Ipotizziamo poi che da questo materiale a suo modo alla Pleasentville sia scaturito il bisogno di rileggere l'orrore del Vietnam, la perdita d'innocenza dell'America tutta di fronte alle guerre imperialiste fatte in nome del petrolio e la fine di ogni utopia.
Immaginiamo quindi che siano venuti spontanei alla mente dello sceneggiatori personaggi emblematici come Merry, figlia del protagonista Seymour, balbettante rigurgito di un'innocenza che stenta a riconoscersi nei valori di una famiglia troppo come tante e che cerca una sua strada dapprima nelle manifestazioni in favore delle minoranze nere (le più d'attualità in fondo, guardando i TG di oltreoceano), poi come terrorista, infine chiusa in un'utopia di pace quietamente autodistruttiva. E che, infine, da tutto questo materiale sia venuto fuori un film originale di un paio d'ore capace di star dentro la storia americana in un continuo mutuo scambio tra pubblico e privato.
Ignorando le quasi cinquecento pagine del sommo scrittore cui ancora si nega incomprensibilmente il Nobel, verrebbero, a visione del film ultimata, alcune riflessioni di un certo peso.
La prima: che il riflettersi reciproco tra intimità familiare che si disgrega inesorabilmente e Storia che scorre in strada sotto le finestre è più detto che fatto oggetto di riflessione cinematografica. Sta nelle intenzioni della sceneggiatura (abbastanza abile pur se con eccessi di romanzesco più credibili sulla pagina che al cinema), ma non diventa quasi mai immagine vibrante nelle sue contraddizioni.
La seconda: che questa storia di follia è guardata un po' troppo dall'alto, dalla sorveglianza obbligata del lusso di ben due narratori (il fratello del protagonista che racconta all'amico scrittore che racconta a noi) che mettono l'asticella della partecipazione empatica un po' troppo in alto e finiscono per restituire l'ossessione del protagonista per la sorte della figlia nello spazio di un montaggio durativo di un minuto uno sul volto attonito di Ewan Mcgregor al sole e sotto la pioggia, di notte come di giorno.
La terza: la componente ebraica del racconto risulta eccessivamente ammorbidita sotto le panacee del sogno americano dell'atleta che sposa la reginetta di bellezza e sembrano perdere livore le potenzialità di dramma di quando la moglie, impazzita di dolore, rinfaccia al marito il suo essere ebreo, maledizione di un matrimonio maledetto a prescindere da millenni di pregiudizio.
La quarta: a fronte di una sceneggiatura abbastanza compatta e abile nei risvolti narrativi c'è una regia scolastica, pulita, abbastanza anni '50, nitida nel racconto, meno capace a scavarci dentro in cerca di un'umanità autentica, contraddittoria, da amare e odiare in egual misura.
Elementi questi che fanno la debolezza di un film calligrafico come se ne facevano una volta e che certo piacerà a una certa fascia di pubblico che corre al cinema per sentirsi raccontare cose e non per perdersi nel mistero della visione.
Un buon prodotto, quindi, accademico e raffinato quanto basta, ma un po' lontano dal cinema che resta e si ricorda.
Poi ritornano in mente le pagine del romanzo da cui tutto prende corpo e si resta basiti di fronte a un film che rispetta la pagina (e che per questo pare sia piaciuto a Roth che ha mandato un telegramma alla produzione come si fa per i matrimoni cui non si partecipa o per i funerali), fatalmente tradendola.
E allora la valutazione del film risulta più difficile, perché il film è una trasposizione con poca anima e ancor meno nerbo. La si guarda fino alla fine, ma il romanzo bussa alla memoria a ogni inquadratura ed è il ricordo a farsi carico di aggiungere, durante la visione, tutto ciò che manca. Sempre - e qui sta l'incaglio - qualcosa in più del dovuto.

(American Pastoral); Regia: Ewan McGregor; sceneggiatura: John Romano (dall'monimo romanzo di Philip Roth); fotografia: Martin Ruhe; montaggio: Melissa Kent; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Ewan McGregor, Jennifer Connelly, Dakota Fanning, Uzo Aduba, Molly Parker, Rupert Evans, David Strathairn, Valorie Curry, Peter Riegert, Mark Hildreth; produzione: Lakeshore Entertainment; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA, 2016; durata: 108'



from Close-Up.it - storie della visione http://ift.tt/2feZrTd

Nessun commento:

Posta un commento