giovedì 30 giugno 2016

FLIPT 2016 - Il ragazzo trasformato in cervo

A Szarvassá változott fiú (Il ragazzo trasformato in cervo) è un piccolo miracolo della più recente cinematografia ungherese.
La pellicola, infatti, si pone consapevolmente sul guado di tutta una serie di snodi estetici sui quali si è esercitata la critica per tantissimi anni rendendo, con la sua sola presenza, obsoleti tantissimi tentativi di definizione e categorizzazione del prodotto cinematografico.
Film letterario, Il ragazzo trasformato in cervo ha radici che partono da lontano e più precisamente da una leggenda precristiana che racconta di nove ragazzi, allevati dal padre alla caccia dei cervi che, perdendosi nel bosco durante una battuta, attraversano un ponte fatato e si trasformano a loro volta in cervi. Il padre, che si era messo sulle loro tracce, li ritrova mentre si abbeverano a una fonte e li riconosce proprio nel momento in cui sta per scoccare contro di loro una freccia.
La leggenda, nella sua dimensione spiccatamente pagana, è raccontata paradossalmente in una colinda, una sorta di canto natalizio rumeno. In questa forma è stata successivamente rielaborata da Bela Bartok in uno dei suoi capolavori più enigmatici, la Cantata profana per doppio coro misto e orchestra, uno dei pochissimi lavori corali del compositore magiaro. E già in questa forma cominciano a confondersi i confini tra generi e confini estetici. La cantata, infatti, utilizza, contrariamente a un'abitudine bartokiana, pochissimo materiale melodico folkorico (la dimensione etnica respira semmai nei profili ritmici) mentre impiega nel coro modi medioevali (in particolare lidio e misolidio) direttamente desunti dalla tradizione del canto gregoriano. Mentre la struttura vocale va ad affondare le proprie radici in una civiltà millenaria e cristiana, il ritmo, la qualità dell'invenzione melodica e il libretto rientrano in una logica assolutamente profana.
La leggenda fornisce, però, lo spunto di una stupenda poesia di Ferenc Juhász in cui è questa volta la madre a richiamare a sé il figlio trasformato in cervo. Una madre divenuta ormai vecchia, quasi fatta incapace dall'età ad affrontare il mondo per cui “anche la luce è cattiva, l'elettricità mi fulmina”. Il figlio da parte sua, come già nella leggenda, risponde esprimendo l'impossibilità di un ritorno perché, una volta che ci si è spersi nella natura e si è bevuto alla fonte del ricordo incontaminato della nostra dimensione più autentica, la strada di casa si fa per sempre impercorribile, a meno che non sia una strada di morte. Pur in questa dimensione intima, attraverso un linguaggio di fortissima valenza simbolica, si confondono ancora le carte tra sacro e profano, perché se è forte la dimensione universale della lacerante separazione del destino di una madre da quello del figlio, resta, nella raffigurazione del dolore della madre il ricordo di uno Stabat mater sublimato in cui la spada che trafigge il cuore della donna è proprio la necessità del figlio di portare a compimento il suo destino anche se questo è la croce e il calvario.
Ed è su questa poesia che si fonda la sceneggiatura del film. Con una traslazione di significato assai intrigante: la sostituzione della condizione di cervo a quella di artista.
Ad essersi allontanato dalla madre è quindi un regista che lavora alla realizzazione di uno spettacolo teatrale fondato sulla leggenda dei nove cervi e che utilizza a piene mani la Cantata Profana bartokiana.
Questo figlio viene richiamato dalla madre a seguito della morte del padre, dalla sua estrema solitudine. Giocoforza che per lui il piano della finzione che sta preparando e quello strettamente autobiografico della sua impossibilità a un ritorno si mischino in maniera indistricabile travasandosi l'uno nell'altro in un vertiginoso eppur fluidissimo gioco di rispecchiamenti.
Il testo della poesia, letto e rilanciato a più voci in uno stupendo gioco polifonico, rimbalzando continuamente dal livello della scena a quello della narrazione rappresenta quindi la dimensione letteraria del film.
Eppure, malgrado l'enorme fedeltà allo scritto, la pellicola non si riduce a semplice rimodulazione del testo in una chiave più o meno calligrafica come avviene in tanto cinema letterario. Il film non è, insomma, piatta illustrazione della poesia, ma alta e complessa e meditazione sulla stessa, scavo continuo nelle sue metafore, operazione archeologica nella sua struttura e nel suo ritmo.
Il rispetto della fonte letteraria non inficia, anzi esalta la libertà dell'invenzione cinematografica che è scatenata in una furia a tratti dionisiaca.
Dall'altro lato la ripresa diretta delle scene teatrali supera l'annosa questione del teatro filmato risolvendola in una sintesi felicissima di opposti.
Ogni linea di confine, quindi, si confonde in questa operazione. Film letterario, film teatrale, musical si intrecciano così continuamente tra loro senza posa e senza inciampi in cui il film non può iscriversi a nessuno dei generi di cui sopra pur conservando di ciascuno la struttura più segreta. Una condizione, in fondo, quasi naturale in un contesto, come quello ungherese, che ha visto ridisegnati continuamente i suoi confini geografici per tutto il corso del secolo scorso. Ma soprattutto una condizione esistenziale.
In questo modo il film diventa un'altissima meditazione sul valore dell'arte che si fonda su un lavoro attoriale superbo e su una costruzione sonora di rarissima complessità eppure di straordinaria chiarezza nella sua capacità di modularsi sui vari livelli della narrazione.
La struttura musicale in particolare, nella sua capacità di miscelare, spesso straniandoli, elementi musicali eterogenei (oltre a Bartok si riconoscono in partitura elaborazioni del tema della Follia di Corelli, ma anche musica contemporanea corale) è collante ideale tra i tagli di un montaggio estremamente ispirato.
E nel gesto finale di resa del regista che spegne il fiammifero con il quale avrebbe voluto dare fuoco al teatro entro cui si stava consumando la sua rappresentazione, si riconosce tanto il superamento di un dissidio in una pacificazione finale con se stessi, quanto, ultima straordinaria sintesi di opposti, lo scendere a patti definitivamente con l'impossibilità di quel ritorno a quella casa che in fondo è l'abbraccio di una madre.

(A szarvassá változott fiú); Regia: Vidnyánszky Attila; sceneggiatura: Vidnyánszky Attila; fotografia: Szatmári Péter; montaggio: Eöri Szabó Zsolt; interpreti: Törőcsik Mari, Trill Zsolt, Varga József, Szűcs Nelli, Tarpai Viktória, Béres Ildikó, Ferenczy Attila, Gál Natália, Ivaskovics Viktor, Kacsur András, Kacsur Andrea, Krémer Sándor, Kristán Attila, Olekszandr Bilozub, Orosz Ibolya, Orosz Melinda, Rácz József, Sőtér István, Szabó Imre, Szász Zsolt, Tóth László, Vass Magdolna; produzione: Ozorai András, Jantyik Csaba; origine: Ungheria, 25 novembre 2014; durata: 90'



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