mercoledì 3 febbraio 2021

Sundance Film Festival 2021, ecco i film visti durante l'edizione virtuale

Si è tenuta dal 28 gennaio al 3 febbraio l’edizione online del Sundance Film Festival, rassegna che come sempre ha proposto al pubblico una serie importante di titoli indipendenti del panorama cinematografico internazionale. Eccovi un resoconto su quanto abbiamo potuto vedere durante le proiezioni virtuali del Sundance 2021

I film più importanti visti al Sundance Film Festival 2021

  • Coda
  • How It Ends
  • Mass
  • Passing
  • Judas and the Black Messiah
  • Together Together 
  • Prisoners of the Ghostland

Coda

Piuttosto convincente il dramma familiare diretto da quella Siân Heder che qualche anno fa ci aveva regalato l’interessante Tallulah con Elliot Page e Allison Janney (disponibile su Netflix). Questa volta la regista racconta la storia della giovane Ruby, adolescente che vive sulla propria pelle la pressione di dover supportare l’intera famiglia di pescatori, essendo l’unica a possedere l’udito. La sua passione per il canto la costringerà a scelte anche dolorose nei confronti delle persone che maggiormente ama. Coda non insiste mai sul fattore della sordità, al contrario adopera gli ostacoli che i membri della famiglia si trovano ad affrontare per creare situazioni divertenti. Il film soprattutto nella prima parte si carica infatti di uno humor inaspettato ed efficace, mentre nella seconda vira con maggiore decisione verso la classica “coming of age” story. Il risultato è un prodotto ricco di spunti che si poggia con intelligenza su una storia sviluppata con precisione e le prove maiuscole dei membri del cast, tra i quali spuntano Eugenio Derbez e il premio Oscar Marlee Matlin (Figli di un dio minore). 

How It Ends

Diretto a quattro mani da Zoe Lister-Jones e Daryl Wein, questo lungometraggio è stato girato interamente durante il lockdown dovuto alla pandemia di COVID-19, e ne interpreta con ironia e precisione l’atmosfera sospesa. La storia è incentrata su Liza, che vuole tentare di dare un senso alla propria vita nell’ultimo giorno disponibile prima che un asteroide piombi sulla Terra annientandola. Ad aiutarla la versione più giovane di se stessa, che continua ad incitarla a svegliarsi e scrollarsi di dosso le proprie paure. La stessa Lister-Jones e Cailee Spaney sono le protagoniste indiscusse di una commedia che parte in maniera frizzante per dipanarsi come un viaggio a tappe dentro la vita e le vicissitudini del personaggio principale. How It Ends presenta esplicitamente la sua natura, ovvero quella di un gruppo di artisti che hanno voluto reagire all’emergenza sanitaria continuando a produrre qualcosa: al film partecipano in vari cammeo una serie di attori comici come Fred Armisen, Nick Kroll, Olivia Wilde e molti altri. In questo modo il cammino della protagonista verso il suo destino diventa una serie di sketch simpatico da vedere ma non sempre efficace a livello narrativo. Il film infatti col passare del tempo cala nella sua presa emotiva verso lo spettatore, chiudendosi in maniera meno efficace di come era cominciato. Rimane un prodotto gustoso da vedere soprattutto se inquadrato nella prospettiva, ovvero tenendo presente le condizioni in cui è stato realizzato. E Zoe Lister-Jones si conferma un talento comico originale e con qualcosa da dire. 

Mass

Due coppie di genitori si ritrovano dentro una stanza privata, nel retro di una chiesa, per discutere un fatto orribile che riguarda i loro figli. Questo il pitch di Mass, interamente o quasi realizzato in una singola ambientazione eppure capace di irretire lo spettatore in virtù di una storia scritta con sapienza, che sviluppa il dramma interiore dei personaggi senza disperderlo adoperando falsa retorica. Diretto da un esordiente come Fran Kranz, il dramma esplora il dolore da entrambi i lati di un evento tragico e sanguinoso, senza giudicare ma al contrario analizzando ogni posizione con minuzia. Se Mass ottiene il risultato di problematizzare gli eventi senza giudicarli è anche merito del cast di attori composto da Ann Dowd, Martha Plimpton, Reed Birney e un Jason Isaac capace di una delle prove migliori della sua carriera. Notevole dramma da camera.

Passing

Notevole studio di caratteri abbinato a una messa in scena preziosa si è rivelato l’esordio alla regia di Rebecca Hall. Ispirato da un romanzo del 1929 scritto da Nella Larsen, il film racconta dell’amicizia complessa tra Irene (Tessa Thompson) e Clare (Ruth Negga), resa ancora più ambigua dal fatto che quest’ultima ha vissuto gli ultimi anni della sua vita fingendo di essere bianca. Passing non esplora con sottigliezza soltanto la questione del colore della pelle (e del razzismo che esso uscita) ma mette in scena anche altre tematiche del tutto contemporanee, come ad esempio la scoperta della propria sessualità o del proprio ruolo sociale. La Hall dirige un gruppo di attori davvero efficace - citiamo anche i sempre validi Andre Holland e Bill Camp - e compone scena dopo scena una storia costellata di psicologie complesse ma non tortuose, dove l’anima umana viene raccontata in tutte le sue debolezze e incoerenze. La scelta del bianco e nero una volta tanto non si rivela fine a se stessa ma apporta alla messa in scena quell’aura di gusto retrò che si addice perfettamente al tono del racconto. Passing è dunque un film stratificato e suadente, che mette in scena con enormi verità e sensibilità figure molto più contemporanee di un smplice period-movie. Davvero un notevole esordio come regista per la Hall. 

Judas and the Black Messiah 

Solido biopic con un messaggio storico/civile si è rivelato Judas and the Black Messiah di Shaka King, storia dell’assassinio del leader delle Pantere Nere Fred Hampton (Daniel Kaluuya) avvenuto a Chicago nel 1968. A “tradirlo” William O’Neal (LaKeith Stanfield), infiltratosi nel movimento per conto per conto dell’FBI. La narrazione del film procede ben scandita, sorretta da una regia che evita sottolienature retoriche in favore di una presentazione degli eventi piuttosto scarna. A livello di confezione fotografia, costumi e ambientazioni rendono Judas and the Black Messiah un lungometraggio elegante da vedere, che ha ovviamente la sua marcia in più nella prova dei due protagonisti. Più di un Kaluuya comunque molto efficace nel ruolo di Hampton a risplendere è Stanfield, capace di raccontare tutte le contraddizioni e le debolezze umane di O’Neil.

Together Together

Intelligente e carico di sensibilità si è rivelata la commedia intimista di Nicole Beckwith che vede protagonisti assoluti Ed Helms e Patti Harrison. Matt è un uomo di mezza età che vuole diventare padre e trova nella ventiseienne Anna il surrogato che partorirà il suo bambino. Pur tentando di rimanere il più possibile distaccati e obbiettivi riguardo il loro accordo, i due iniziano a sviluppare un’amicizia resa però complicata dal differente stile di vita e dalle opinioni spesso opposte. La Beckwith evita con cura molte ovvietà che una storia come questa avrebbe potuto incontrare, mettendo in scena situazioni reali e insieme spiritose, realizzate attraverso un tono gentile e mai affettato. Il resto lo fa l’alchimia tra i due attori, con Ed Helms che si conferma sempre molto efficace quando deve dare profondità emotiva all’uomo comune. Together Together affronta il tema della paternità e della maternità con uno sguardo sincero e mai retorico, un gran pregio per un film di genere. 

Prisoners of the Ghostland

Un Nicolas Cage scatenato si rivela cazzuto protagonista insieme a Sofia Boutella della prima regia in lingua inglese del cineasta giapponese Sion Sono. In un mondo post-apocalittico un ex-rapinatore ha cinque giorni di tempo recuperare la figlia di un ricco magnate, prima che questi lo faccia letteralmente saltare in aria. Un tripudio di trovate visive e narrative permette ai due protagonisti di addentrarsi dentro un universo cinematografico variegato e molto divertente da vedere. Citazioni a non finire nei confronti del genere - Mad Max, 1997: Fuga da New York su tutti - ma in filigrana uno sguardo non convenzionale alla storia e alla società nipponica, con tutte le sue contraddizioni civili e sociali. Insomma, Prisoners of the Ghostland regala intrattenimento in salsa pulp con l’aggiunta mai sgradita di un Nicolas Cage come sempre pepato a dovere. 

Land

Anche Robin Wright ha scelto di passare alla regia con Land, storia di una donna che dopo la tragica morte del marito e del figlio decide di isolarsi in una baita di montagna per fare i conti col proprio dolore. L’ostilità del clima e della natura selvaggia la porteranno a fronteggiare situazioni estreme, finché l’arrivo di Miguel (Demian Bichir) l’aiuterà a destreggiarsi meglio in mezzo ai boschi, e non soltanto. La Wright si cuce addosso il film per sfruttare la sua indubbia presenza scenica, ma nonostante alcuni buoni momenti Land non riesce ad evitare molti luoghi comuni di questo tipo di storie, e spesso scivola nel già visto. Il dramma intimista propone una serie di scenari naturali che sono davvero stupendi da vedere, impreziosendo la confezione di una produzione “piccola” ma decisamente ben girata. Peccato per le suddette ovvietà, che allungano la percezione di un racconto che avrebbe dovuto trovare altre strade per presentare l'elaborazione del lutto in maniera più vera, o quantomeno originale.

Censor

Parte con il piglio giusto il thriller/horror di produzione britannica targato Prano Bailey-Bond. Ambientato nell'Inghilterra soffocata dal conservatorismo del Governo Thatcher, il film racconta di Enid, il cui lavoro consiste nel censurare la valanga di film di serie B che vengono prodotti a base di violenza gratuita e sangue e catinelle. La donna però si trova a scivolare pian piano in un incubo tutto personale quando scopre che un film di questi racconta in maniera fin troppo dettagliata la scomparsa di sua sorella, avvenuta anni prima in circostanze misteriose. Dopo un incipit in cui l’ambientazione si rivela efficace e intrigante, Censor perde purtroppo di presa emotiva e psicologica sullo spettatore a causa di una storia che si fa eccessivamente frastagliata, fino ad arrivare a un finale che predilige la metafora ostentata invece del racconto lineare. Non un totale fallimento perché l'idea di base rimane piuttosto interessante e almeno all’inizio si dipana con il giusto piglio estetico e narrativo, ma senz’altro un’occasione che poteva e doveva essere sviluppata con maggiore coerenza. 

On the Count of Three

L’esordio alla regia dell’attore Jerrod Carmichael racconta di due amici decisi a suicidarsi, i quali passano il loro ultimo giorno insieme tra piccoli problemi e grandi tragedie personali. Lo stesso Carmichael è co-protagonista del film insieme a Christopher Abbott, uno degli attori a nostro avviso più talentuosi emersi negli ultimi anni. Il film parte come una commedia che esplora con precisione la psicologia dei due personaggi principali, bloccati in un ambiente monotono e deprimente, incapaci a sottrarsi a un destino che sembra stato scritto da qualcun altro. Finché scorre su questi binari On the Count of Three funziona a dovere, proponendo allo spettatore situazioni assurde che divertono insieme ad alcune dissertazioni strampalate sulla vita e sulla società americana ugualmente ilari. Poi però la storia e il tono scivolano improvvisamente dentro il dramma, ed ecco che la vicenda non si discosta quasi per nulla da molti prodotti indipendenti già visti. Sia il racconto che la messa in scena diventano convenzionali, fino a una conclusione ampiamente prevedibile e meno efficace di quanto avrebbe potuto essere se On the Count of Three si fosse mantenuto sulla strada della commedia di situazione. Un peccato, perché tutto sommato era iniziato in maniera anticonvenzionale. Nel cast anche Tiffany Haddish, Irwin Winkler e J.B. Smoove.

The World to Come

Non incide quasi mai il dramma di Mona Fastvold, storia d’amore tra due donne ambientata nel diciottesimo secolo negli Stati Uniti. Il tono autoriale che ricorda fin troppo da vicino quello di Terrence Malick affossa quasi immediatamente il pathos degli eventi e delle situazioni, lasciando tutto sommato inerme una messa in scena elegante e sommessa. In questo modo il film non riesce a sfruttare al meglio un cast di attori di spessore, composto da Katherine Waterston, Vanessa Kirby, il premio Oscar Casey Affleck e Christopher Abbott. Un’occasione mancata per una storia che avrebbe dovuto possedere ben altro impatto emotivo sullo spettatore. 

Eight for Silver

Purtroppo dimenticabile l’horror diretto da quello Sean Ellis che qualche tempo fa ci aveva regalato un cortometraggio interessante come Cashback. Con una storia ambientata nella campagna inglese del XIX secolo, la sceneggiatura tenta di reinventare l’idea di lupo mannaro in maniera fin troppo costruita, diluendo inutilmente il racconto in favore di una messa in scena da dramma in costume. Il risultato è un film che non spaventa e ancor peggio non intrattiene nonostante la presenza di un cast eclettico composto tra gli altri da Kelly Reilly e Boyd Holbrook. Idea interessante mal gestita: un approccio maggiormente di genere avrebbe portato a risultati decisamente più efficaci. 



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