lunedì 6 settembre 2021

La Caja, la recensione del film di Lorenzo Vigas in concorso al Festival di Venezia 2021

L'inizio di La Caja non è dei migliori. Se è vero che un film si giudica anche da quanto presto e quanto spesso ti fa guardare l'orologio, un primo check che a 14 minuti dall'inizio non è esattamente un buon biglietto da visita (il secondo, per la cronaca, è arrivato attorno al cinquantesimo minuti).
È ruvido, poco scorrevole, questo film di Lorenzo Vigas, specie all'inizio.
Si parte raccontando di un ragazzino messicano, Hatzin, che da Città del Messico è arrivato nella provincia del nord del paese per recuperare i resti del padre, da tempo scomparso e ritrovato in una fossa comune, con discreta enfasi sui paesaggi brulli e desolati, sui silenzi forzati, sull'alternanza tra inquadrature larghissime che incorniciano i paesaggi e invece momenti di claustrofobia chiusura su volti, oggetti, arti.
Sulla vita del ritorno, però, Hatzin incontra un uomo, Mario, che a quel padre scomparso somiglia tantissimo: e un po' per disperazione, un po' per convinzione, inizia a seguirlo, interrogarlo, incalzarlo. Finché Mario non accetterà di prenderlo sotto la sua ala, senza però mai sciogliere davvero il nodo della sua identità.

Nemmeno Vigas lo scioglie con chiarezza quel nodo: lascia che a farlo sia lo spettatore, che arrivato alla fine del film potrebbe leggere le cose in un modo come in un altro. Uno spettatore che anche nel corso del film Vigas sembra voler confondere con messaggi potenzialmente contraddittori.
Il fatto è che Mario, all'inizio, sembra una persona buona e generosa: il suo lavoro è quello di viaggiare per la provincia reclutando operai per le fabbriche della sua zona, e con questi lavoratori è disponibile e premutoso. Lentamente, però, Hatzin inizierà a scoprire le sue ombre: dapprima bugie quasi innocenti, poi qualche furto opportunistico, infine il coinvolgimento, seppur indiretto, in omicidi e sparizioni.

Cosa conta di più? Il sangue, il legame familiare, seppure incerto, o conta la morale? Se Mario sembra voler confessare a Hetzin di essere suo padre, è perché lo è davvero o perché sa che il ragazzo ha sospetti sul suo operato? Dice la verità, o lo vuole solo dalla sua parte?
Su queste domande, e su queste ambiguità Vigas - miracolato vincitore di Leone d'Oro nel 2015 con il precedente Ti guardo - fonda l'architettura intera di La Caja: ma le sfumature e le incertezze che il film racconta stonano un po' con la sua regia così tradizionalmente corretta, così prevedibilmente "d'autore", così solidamente programmatico.
Dal cinquantesimo minuto in avanti, attenuato il minimalismo d'essai che aveva aperto La Caja, l'orologio lo si guarda di meno, ma l'incedere non diventa mai né oliato né trascinante, né il racconto si fa particolarmente intenso. Vigas rimane attaccato a un'idea di cinema standardizzata, distaccata ed estetizzante: e se il suo film - un po' anonimo, un po' scontato, molto studiato - non scandalizza nel concorso veneziano, rischia anche di scorrer via senza lasciare grandi tracce di sé.



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